Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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«La nostra stella è unica, eppure è doppia. Sappiate distinguere la sua impronta reale dalla sua immagine e noterete ch'essa brilla con più intensità alla luce del giorno che nelle tenebre della notte». Questi versi sibillini appartengono a un misterioso personaggio di cui si sa ben poco, ma che ha saputo trasmettere nei suoi scritti un complicato e complesso sistema di conoscenze. Il suo pseudonimo è Fulcanelli. Chi era costui? Perché si nascondeva dietro un nome di fantasia? Qual è il contenuto dei suoi libri?
Il mistero dell’identità
La fama di Fulcanelli ha raggiunto ogni continente e i suoi libri sono stati venduti in milioni di copie. Sicuramente l'alone di mistero che avvolge questa figura del secolo scorso ha contribuito a fomentare l'interesse anche nei confronti dei suoi scritti.
Il suo nominativo è stranamente molto diffuso nella cultura popolare: è presente, per esempio, in un brano di Frank Zappa intitolato But who was Fulcanelli? Ma viene citato anche nel famoso libro L'alchimista di Paulo Coelho oltre che nel romanzo Il pendolo di Foucault di Umberto Eco.
In primo luogo possiamo dire, con relativa certezza, che dietro questo nominativo si nasconda un alchimista. Probabilmente, infatti, l’adozione del suo nome fittizio è riconducibile all'unione delle parole Vulcano ed Helio, ossia due elementi che rimandano ai fuochi alchemici. Molti sono i personaggi che sono stati accostati a questo personaggio: Jean Julien Champagne, René Adolphe Schwaller de Lubicz, Camille Flammarion, Pierre Dujol o Jules Violle. Qualcuno ha pensato anche a Eugène Canseliet, ma egli si è sempre solo dichiarato suo discepolo e curatore delle prefazioni dei suoi libri.
Un'improbabile e fantasiosa ipotesi vede poi nell'identità Fulcanelli il famoso alchimista rinascimentale Nicolas Flamel, il quale dopo aver dedicato anni di studi sull'elisir di lunga vita l’abbia poi realmente realizzato rimanendo in vita fino al secolo scorso e assumendo appunto l’identità dello scrittore.
Secondo la ricercatrice Geneviève Dubois, sulla base di lettere, testimonianze e di una dettagliata e paziente ricerca ha avanzato una precisa ipotesi sull’identità: Fulcanelli sarebbe stato in realtà Jean-Julien Champagne, alchimista, artista e pittore parigino, maestro di Canseliet, nato nel 1877 e morto nel 1932 all’età di cinquantacinque anni. Champagne avrebbe goduto di una ventennale e feconda collaborazione con René Schwaller de Lubicz, esoterista ed egittologo a cui avrebbe rubato l’idea e i manoscritti originali per dettarli all’ignaro Canseliet che, in buona fede, li avrebbe fatti pubblicare nel 1926 e nel 1930.
René Schwaller giunse a Parigi nel 1910, divenendo un allievo di Matisse; a questo periodo risalirebbe il primo contatto con l’ambiente occultista parigino e l’incontro con Champagne. Quest’ultimo, appartenente a un circolo ermetico, aveva ritrovato nel 1913 un raro esemplare degli scritti di Newton, ossia un manoscritto di sei pagine che stimò essere del 1830. Questi fogli probabilmente contenevano il segreto delle manipolazioni alchemiche che avevano permesso la realizzazione dei famosi colori blu e rossi utilizzati nelle vetrate della cattedrale di Chartres. Invano tentò di decifrarlo passando molte ore in laboratorio. Proprio in quel periodo decise di avvicinare Schwaller, conoscendo il suo interesse per l’alchimia. Gli propose, dunque, la decodifica del manoscritto e un’eventuale collaborazione. Schwaller ne rimase colpito e, nonostante non stimasse Champagne, decise di stipulare un accordo: avrebbe versato una somma mensile al pittore per la sua sussistenza, in cambio della quale Champagne avrebbe lavorato all’aspetto operativo. Nel contratto era stata però stipulata una clausola: qualsiasi cosa fosse successa, nessuno avrebbe dovuto sapere dell’esistenza di questo patto, alla cui conclusione si sarebbero separati senza rivelarne a nessuno l’esistenza e senza affrontarne più l’argomento.
Nel 1916 l’allora sedicenne Eugène Canseliet venne presentato a Champagne, divenendone presto l’allievo. Eugène Canseliet, tra le altre cose, tempo dopo ha dichiarato di essere stato avvicinato da un misterioso personaggio che gli avrebbe detto: «Si può vivere infinitamente più a lungo di quanto l’uomo “non sveglio” possa immaginare. Si può cambiare totalmente di aspetto. Io lo so, i miei occhi sanno. So anche che la Pietra Filosofale è una realtà. Non si potrebbe insegnare l’Alchimia. Tutte le grandi opere letterarie che hanno varcato i secoli contengono una parte di questo insegnamento. Esse sono il prodotto di uomini adulti, veramente adulti, che hanno parlato a bambini. Nessuna grande opera è in difetto sui Principi».
Secondo la testimonianza di Canseliet, il personaggio identificato come Fulcanelli avrebbe realizzato la Grande Opera (alchemica) nel 1922, in età già avanzata e da allora si sarebbe liberato dei limiti spazio-temporali, entrando così nella ristretta fratellanza di adepti immortali. Proprio in quell’anno, Canseliet, seguendo le dirette istruzioni di Fulcanelli, realizzò la sua prima trasmutazione in una camera dell’Officina del Gas situata in via Taillepied a Sarcelles, cittadina francese non lontano da Parigi: da una certa quantità di piombo vennero prodotti 120 grammi di oro fino, grazie alla Pietra che Fulcanelli aveva portato con sé.
Il contenuto esoterico delle opere
Le opere di Fulcanelli sono straordinarie perché, in qualità di alchimista operativo nel senso più antico del termine, cercano di divulgare, partendo dal simbolismo ermetico, i punti principali della Grande Opera illustrandone i principi teorici e la prassi sperimentale.
Fulcanelli ha scritto Il mistero delle cattedrali nel 1926 e Le dimore filosofali nel 1931 nei quali sono analizzati e spigati i simboli alchemici presenti nelle architetture delle antiche cattedrali gotiche.
Canseliet ha sostenuto che Fulcanelli abbia scritto anche un terzo libro, Finis Gloriae Mundi, che gli è stato consegnato per la pubblicazione ma poi ritirato in un secondo momento; il titolo di quest'ultimo libro faceva riferimento a un dipinto di Juan de Valdés Leal conservato presso la chiesa della Santa Caridad a Siviglia. Due sarebbero le versioni di questo misterioso trattato, comunque poco compatibili con le altre opere e di dubbia provenienza: una apparve già nel 1988 sulla Tourbe des Philosophes e l'altra fu affidata a Jacques d'Ares.
Le opere pubblicate possono essere considerate come un eccellente compendio di scienza ermetica attraverso lo studio dell’arte gotica. L’alchimia è stata definita dall’autore come la ricerca della perfezione e il risveglio spirituale affrancandosi dal peso della materia. Lo scopo alla base delle operazioni ermetiche è la permanente purificazione che conduce alla trasmutazione spirituale dell’adepto.
A partire dal Mistero delle Cattedrali, Fulcanelli intreccia l’analisi approfondita delle chiese gotiche francesi, Notre-Dame de Paris, la cattedrale di Amiens e quella di Bourges, all’esposizione dei significati occulti dei simboli e dei miti esoterici e delle pratiche alchemiche.
Basandosi su quella che chiama cabala fonetica (anche conosciuta come Lingua Verde) collega l'espressione “arte gotica” non dall'aggettivo gotico nel senso deteriore di “barbaro”, ma da art goth e quindi da argot, rimarcando la sua derivazione da una lingua segreta nota solo agli iniziati che avrebbe ispirato le decorazioni scultoree delle chiese medievali sottoforma d'immagini allegoriche.
Elementi architettonici come i rosoni e decorazioni pavimentali come i labirinti sono parimenti ricondotti a una simbologia esoterica. La figura della Madonna col Bambino (e specialmente la Madonna Nera) discenderebbe dall'immagine di Iside che allatta il figlio Horus, mentre quella di san Cristoforo simboleggerebbe proprio la figura del ricercatore alchimista.
Scopo dichiarato dell’autore è illustrare il significato originario e reale della scienza alchemica e, al contempo, ristabilire il valore straordinario dell’arte gotica e della cultura medievale, dimostrando il carattere falso e artificioso delle critiche mosse al medioevo dagli storici e scrittori a partire dal Rinascimento.
La chiesa gotica è considerata, quindi, il tempio alchemico per eccellenza; essa costituisce la glorificazione muta, ma espressa con immagini dell’antica scienza ermetica. Le cattedrali gotiche sono state costruite dai framassoni per assicurare proprio la trasmissione dei simboli della dottrina ermetica; gli artisti del medioevo testimoniano come questo periodo non conobbe per niente le tenebre dell’oblio della conoscenza ma vide, al contrario, il fiorire di eccezionali opere filosofiche e di trattati ermetici.
L'autore si augurava, infine, che la sua opera potesse essere d'aiuto a chi volesse accostarsi senza pregiudizi all'alchimia ed esortava il lettore che si volesse cimentare ad essere rigoroso e scrupoloso nella sua ricerca, tenendo sempre bene a mente quattro parole d'ordine: Sapere – Potere – Osare – Tacere.
Fulcanelli, dunque, nella sua opera sulle cattedrali precisava che: «Quaggiù non esistono né il caso, né la coincidenza, né i rapporti fortuiti; tutto è previsto, ordinato e regolato, e non spetta a noi modificare a nostro piacimento la volontà imperscrutabile del destino».
La Basilica di San Nicola di Bari è il cuore pulsante della città non solo perché si trova proprio nella città vecchia, ma soprattutto per quello che rappresenta dal punto di vista religioso e come simbolo identitario di un’intera comunità. Questo imponente edificio, però, oltre alla sua indiscussa e austera bellezza architettonica nasconde e custodisce alcune particolarità che lo rendono ancora più affascinante e per alcuni versi anche misterioso.
Un po’ di storia…
La fabbrica, in stile romanico, della basilica è stata iniziata tra il 1087, data della donazione di Ruggero Borsa al vescovo Ursone della corte del catapano e il 1197 periodo in cui ebbe altre importanti trasformazioni.
L'edificazione della basilica è strettamente legata alla vicenda di san Nicola le cui ossa furono trafugate da sessantadue marinai baresi dalla città di Mira (in Licia) e giunsero a Bari il 9 maggio 1087.
Le reliquie vennero traslate provvisoriamente presso il monastero di san Benedetto retto dall'abate Elia il quale promosse subito l'edificazione di una nuova grande chiesa per ospitarle adeguatamente. Fu scelta l'area che sino a pochi anni prima aveva ospitato il palazzo del catapano (governatore) bizantino, distrutto durante la ribellione per le libertà comunali e che Roberto il Guiscardo aveva donato l'anno prima all'arcivescovo Ursone.
Il 1º ottobre 1089 le reliquie furono trasferite nella cripta della basilica da papa Urbano II giunto appositamente a Bari.
La costruzione, frutto di almeno tre fasi successive, si concluse nel 1197. Fino al Concordato del 1929 era considerata come chiesa palatina ossia di patronato reale ed esente dalla giurisdizione dei vescovi locali.
Nel 1951, ponendo fine all'istituzione del capitolo dei canonici sin dalla prima metà del XII secolo, la basilica è stata affidata all'ordine domenicano.
Nel 1968 poi Paolo VI ha elevato il tempio alla dignità di basilica pontificia promulgando la costituzione apostolica Basilicae Nicolaitanae.
Una struttura maestosa
La basilica, considerata uno dei prototipi delle chiese romanico-pugliesi, sorge a poca distanza dal mare. La facciata a salienti, semplice e maestosa, è tripartita da lesene, coronata da archetti e aperta in alto da bifore e in basso da tre portali, dei quali il mediano, a baldacchino su colonne, è riccamente scolpito. Due torri campanarie mozze, di diversa fattura, fiancheggiano la facciata. I fianchi si caratterizzano per le profonde arcate cieche.
All'interno, presenta uno sviluppo planimetrico a croce latina commissa. È divisa in tre navate da dodici colonne di spoglio (sei per lato di cui le prime quattro binate cioè affiancate a coppie).
Il soffitto è intagliato e dorato con riquadri dipinti risalenti al XVII secolo. Tre solenni arcate su graziose colonne dividono la navata centrale del presbiterio.
L'altare maggiore è sormontato da un ciborio del XII secolo. Nell'abside centrale degno di nota è il pavimento con tarsie marmoree e con motivi orientaleggianti dei primi decenni del XII secolo.
Nell'altare dell'abside destro è presente un trittico di Andrea Rizo da Candia del XV secolo; nella parete retrostante si notano vari resti di affreschi trecenteschi.
Sulla destra è presente il ricco altare di San Nicola del 1684. Nell'abside sinistro campeggia una pala d'altare raffigurante la Madonna col Bambino in trono e i santi Giacomo, Ludovico, Nicola di Bari e Marco e un’opera raffigurante Cristo in pietà fiancheggiato dai santi Gregorio e Francesco eseguita da Bartolomeo Vivarini nel 1476.
Il ciborio sovrastante l'altare, realizzato prima del 1150, è il più antico della regione. All'interno della basilica è conservato uno dei maggiori capolavori scultorei del romanico pugliese: una cattedra episcopale realizzata al termine dell'XI secolo; da un'iscrizione posta sul retro si è fatto risalire l’opera agli anni tra il 1098 e il 1105. Se tale datazione fosse accertata, la cattedra costituirebbe uno dei primi lavori del romanico pugliese.
Due scaloni al termine delle navate laterali conducono nella cripta triabsidata, vasta quanto il transetto e sostenuta da 26 colonne abbellite da capitelli romanici. Una delle absidi laterali è destinata al culto ortodosso. Sotto l'altare centrale della cripta riposa il corpo di san Nicola.
L’edificio più importante di Bari nasconde alcuni misteri davvero affascinanti a metà strada tra la storia, la leggenda e il mito con risvolti sorprendenti e spesso poco conosciuti.
Uno dei misteri certamente più affascinati è quello legato a una presenza alquanto singolare che tocca il mito: l'immagine di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Secondi alcuni potrebbero essere rappresentati all'interno della lunetta di uno degli ingressi laterali, chiamata la Porta dei Leoni o anche Porta degli Otto Cavalieri. Nella fascia interna della lunetta, infatti, sono raffigurati proprio otto cavalieri, quattro per lato, che attaccano in sella ai loro cavalli, con le lance in resta, una cittadella fortificata, difesa da alcuni uomini appiedati. L'identificazione di questi cavalieri con quelli del ciclo arturiano non è esplicita, ma nasce dall'osservazione della straordinaria somiglianza di questo bassorilievo con quello che decora il Portale della Pescheria nel Duomo di Modena.
Tuttavia questa rappresentazione non sembrerebbe un caso isolato in terra pugliese se pensiamo anche al famoso pavimento musivo della Cattedrale di Otranto dove compare, tra i numerosi personaggi, Rex Arturius e anche questa volta in notevole anticipo rispetto alle tradizioni scritte del ciclo di Artù. L'ipotesi più plausibile è che prima di essere messe per iscritto in opere letterarie, le leggende su Re Artù e sul Santo Graal venissero tramandate oralmente da trovatori e menestrelli e non è escluso che questi fossero giunti in Italia al seguito delle invasioni dei Normanni. Tuttavia la strana presenza ha fatto della cattedrale barese uno dei tanti luoghi indicati come possibile custodia del Sacro Calice.
La cripta della Basilica di San Nicola custodisce altresì un gran numero di reliquie; il re di Napoli Carlo II d'Angiò (1285-1309) donò alla Basilica una Sacra Spina proveniente dalla corona che fu posta sul capo di Gesù durante la Passione e un frammento della Vera Croce. Il re angioino era intenzionato a fare della cattedrale la sua cappella regia. Questa spina santa ha la singolare proprietà, come altre della corona, di colorirsi di un alone rossastro ogni Venerdì Santo esclusivamente però nel caso in cui questo giorno coincidesse con l'Annunciazione (25 Marzo).
Molte delle altre reliquie vennero accumulate sotto la guida dell'abate Elia: un braccio di San Tommaso Apostolo, una ciocca di capelli della Vergine Maria e resti dei corpi di San Vincenzo martire, di San Giacomo Maggiore e San Giacomo Minore.
Sotto il dominio di Carlo d'Angiò, invece, vennero raccolte e accumulate molte altre reliquie o presunte tali. Tra esse ricordiamo: un frammento della Sacra Spugna che venne imbevuta d'aceto per inumidire le labbra di Gesù sulla croce, un dente di Maria Maddalena e un frammento della Croce del Buon Ladrone. Tra le altre, giunte anche nei secoli successivi, troviamo un frammento della veste di Gesù, una scheggia della Sacra Culla ove egli fu deposto appena nato, una goccia del sangue di Santo Stefano e una delle pietre che fu usata per la sua lapidazione. Molte di queste reliquie, la cui bizzarria ne palesa probabilmente la falsità, oggi sono andate perdute e di esse rimangono solo i preziosi reliquari che furono costruiti per esporle all'adorazione dei fedeli.
Una menzione a parte merita la cosiddetta Colonna miracolosa, ossia un frammento di colonna di marmo rossiccio che si può vedere ingabbiato in un angolo della cripta, a destra dell'ingresso. La devozione popolare attribuisce a questa colonna proprietà taumaturgiche.
Infine, ma non per importanza, bisogna necessariamente far riferimento alla storia di San Nicola e della manna miracolosa che stillerebbe ancora oggi dalle sue ossa e che avrebbe proprietà taumaturgiche.
Subito dopo la sua morte, infatti, dai suoi resti deposti all'interno della tomba preparata nella Basilica di Myra, cominciò a scaturire un liquido particolare, lattiginoso e profumato, chiamato myron (da cui successivamente avrebbe preso il nome la località) a cui i fedeli attribuirono presto un potere di guarigione. Anche dopo la traslazione dei resti a Bari il fenomeno è continuato incessantemente. Studi specifici e analisi batteriologiche e chimiche su campioni prelevati dall'arca del santo hanno dimostrato che essa è in realtà un'acqua straordinariamente pura, con un bassissimo valore di residuo fisso, non tipico delle acque di infiltrazione e di raccolta sotterranea.
Proprio ancora a San Nicola è legato poi un secondo mistero. Nel transetto destro della basilica si trova un altare, detto del Patrocinio, dedicato al santo e interamente rivestito di una lamina d'argento sbalzato, con undici riquadri raffiguranti la vita e i miracoli del santo di Myra. L'opera venne commissionata dal priore Alessandro Pallavicino agli orafi napoletani Ennio Avitabile e Domenico Marinelli, in sostituzione di un altare più antico.
La lamina d'argento posta al centro della mensa d'altare presenta un'insolita caratteristica. Nella parte centrale è cesellata a volute floreali, ma sui bordi, in una specie di cornice, riporta una fitta sequenza di lettere alfabetiche maiuscole, consonanti e vocali, apparentemente senza senso compiuto, a volte intervallate da piccoli gruppi di punti.
Si tratterebbe di un crittogramma, ossia di una scrittura cifrata sul quale sono state fatte numerose ipotesi e al quale è stato dedicato anche un numero speciale nel 1995 del fumetto Martin Mystere di Alfredo Castelli.
Potrebbe contenere le indicazioni per ritrovare una sacra reliquia o un tesoro, come sostengono alcuni, o si tratta più banalmente di un gioco, un enigma per scopi ludici e poi riutilizzato per ricoprire l'altare, come sostengono altri?
L'alfabeto è latino, mancano del tutto le lettere Z e U (quest'ultima probabilmente assimilata con la V) e tutte le N si presentano rovesciate. Bisogna precisare che anche lungo il perimetro esterno della chiesa, scorrendo le pietre delle mura, si notano alcuni bassorilievi e altre incisioni, molte delle quali presentano proprio ancora la N inversa.
L'ultima riga riporta solo 22 caratteri, ma nello spazio restante che inizialmente doveva essere stato vuoto è presente un'iscrizione in chiaro che riporta il nome dell'incisore, del committente e la data: "Magnificus Dominici Marinelli preditti altari FF. MDCLXXXIV" (Il Magnifico fece fare l'altare del predetto Domenico Marinelli 1684). Si capisce che l'iscrizione è stata apposta in seguito perché la grafia è diversa e nella fattispecie più grossolana e inoltre le N sono scritte normalmente.
Una caratteristica peculiare è che, soprattutto nella parte inferiore, molte delle lettere sono intervallate da piccoli punti, o serie di punti, tracciati quasi impercettibilmente alla base delle lettere. È stato ipotizzato perciò che il vero crittogramma da decifrare possa essere proprio quello presente nella fascia inferiore (in particolare le parole evidenziate dai puntini) e che il resto sia in realtà un testo casuale messo per sviare l'attenzione.
Nel mese di settembre del 2003, un articolo a firma dello storico e studioso Vincenzo dell'Aere rivelava di aver decifrato, insieme ad un altro ricercatore, Pierfrancesco Rescio, il crittogramma fornendo la seguente soluzione:
ARCA TESTA TECTA
A CRIPTA IN MIRA
ET GRADALE A SACEL(LO)
IN GALVA(NI) SEPULCR(O)
che può essere tradotto più o meno come: la cassa e il vaso nascosti nella cripta di Myra e il calice (proveniente) dal sacello di Galvano (Galgano) sono qui sepolti.
Se questa ipotesi fosse vera nell’edificio più sacro di Bari riecheggerebbe ancora una volta l’eco di Re Artù e del Santo Graal aprendo, di fatto, la strada a nuove e interessanti congetture.