Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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Ogni storia ha una fine e allora partiamo proprio da una di queste per parlare della morte di un uomo fuori dal tempo e forse oltre il tempo: «Diconsi stelle di XVI grandezza e tanto più lontane sono che la luce loro solo dopo XXIV secoli arriva a noi. Visibili furono esse coi telescopi Herschel. Ma chi narrerà delle stelle anche più remote: atomi percettibili solo colle più meravigliose lenti che la scienza possegga o trovi? Quale cifra rappresenterà tale distanza che solo correndo per milioni d'anni la luce alata valicherebbe? Uomini udite: oltre quelle spaziano ancora i confini dell'Universo!».
Questa enigmatica iscrizione è l’epitaffio di un sarcofago ospitato all’interno di un castello fiabesco nel bel mezzo dell’appennino emiliano.
Questo luogo incantato si chiama Rocchetta Mattei, in onore del suo costruttore ossia il conte Cesare Mattei; si tratta di un castello forse ora poco conosciuto, ma ben noto nei secoli scorsi.
Il maniero, infatti, ha ospitato illustri personaggi: sembra che siano arrivati sul posto, tra gli altri, Ludovico III di Baviera e lo zar Alessandro II. Nel 1925 è stato visitato in forma ufficiale dal Principe di Piemonte. Persino Dostoevskji ne fa menzione nel suo romanzo I fratelli Karamàzov quando fa raccontare al diavolo di essere riuscito a guarire da terribili reumatismi grazie a un libro e alle gocce miracolose proprio del conte Mattei.
Rocchetta Mattei è un luogo “magico” per diversi motivi e non solo perché si presenta alla vista dei visitatori come un labirinto di torri, scalinate, sale di ricevimento e camere private in un’affascinante quanto enigmatica fusione e integrazione di diversi stili architettonici che vanno dal medievale al rinascimentale, dal moresco a quello più spiccatamente Liberty soprattutto negli ambienti interni.
La domanda che ogni visitatore si pone è: a cosa serviva realmente questo posto?
Un luogo sospeso tra mito e realtà
Rocchetta Mattei è situata sull'appennino emiliano settentrionale a circa 400 metri sul livello del mare in località Savignano nel comune di Grizzana Morandi sulla strada statale Porrettana.
Dal 2005 l’apertura al pubblico è garantita da un’intesa tra la Fondazione Carisbo, il Comune di Grizzana Morandi, la Città metropolitana di Bologna e l’Unione Comuni Appennino Bolognese. La proprietà dell’immobile è, infatti, della Fondazione Carisbo che ha provveduto al recupero dell’edificio dopo anni di chiusura e abbandono.
Il conte Cesare Mattei la fece edificare sulle rovine di una antica costruzione risalente all’XIII secolo, conosciuta come la Rocca di Savignano. Il complesso medievale è appartenuto nel corso del tempo agli imperatori Federico il Barbarossa e Ottone IV ed è stato dominio della contessa Matilde di Canossa che vi ha tenuto come custode il suo vassallo Lanfranco da Savignano.
La rocca, pur persistendo sulla struttura storica originaria, è stata profondamente rimaneggiata e ampliata per volontà del conte e successivamente del suo figlio adottivo.
Tutta la struttura è immersa in un’atmosfera sospesa e fuori dal tempo che si mescolata a un senso di mistero e maestosità. Si entra così in una dimensione sensoriale particolare e unica dove tutto è rappresentazione e dove ogni elemento si fa simbolo.
Già all’ingresso si può notare un ippogrifo a guardia dell'entrata; attraverso la scala si passa poi in un cortile scavato nella roccia; proprio la costante e ricorrente mimetizzazione e convivenza nonché integrazione della natura con le costruzioni spesso arabeggianti è la cifra stilistico di questo posto.
Il catino monolite che occupa il centro del cortile proviene dalla parrocchiale di Verzuno ove serviva da fonte battesimale. Nell’ambiente successivo si possono notare due telamoni a guisa di cariatidi che sostengono lo stipite della porta. Queste due figure impersonificano rispettivamente un demone (a sinistra) in pietra rosa e un uomo in pietra più chiara (a destra), forse allusione al male e al bene e alla polarità negativa e positiva (come vedremo caratteristica fondamentale delle cure innovative studiate dal Conte). Possiamo notare la differenza tra le due figure: mentre una regge senza fatica il peso, tiene le gambe unite e indossa una veste lunga, l’altra figura, invece, ha le gambe incrociate ed è a piedi nudi, indossa una veste corta e ha gli occhi bene aperti e le orecchie tese.
Sullo stesso lato una porta conduce a una scaletta e poi al magnifico loggiato noto come Loggia Carolina in stile orientale. A tal proposito bisogna precisare che il conte faceva parte proprio della Loggia Carolina, nome in codice dell’appartenenza massonica milanese denominata “Fratelli Riuniti” fondata da Murat nel 1802.
La scala della torre conduce, attraverso un ponte levatoio, a una stanzetta con finestre piccole e dal soffitto a stalattiti che è stata la camera da letto del conte e nella quale sono ancora conservati i mobili originali e le pipe di sua proprietà. La scala poi conduce alla Sala Inglese nell'alto del torrione principale.
Ritornando nella Loggia Carolina troviamo la Camera Bianca e la Camera Turca. Dopo un breve tratto di roccia scoperta si accede al Cortile dei Leoni, riproduzione in scala di quello dell'Alhambra di Granada. A lato di questo cortile vi è l'ingresso a una specie di vasta cantoria che sovrasta l'interno della chiesa del castello. In un'arca rivestita di maioliche si trovano le spoglie proprio di Cesare Mattei. L'arca non riporta alcun nome, ma soltanto l'iscrizione: «Anima requiescat in manu dei» (l'anima riposa nelle mani di Dio) e l’epitaffio che abbiamo visto in apertura.
Ripassando dal cortile dei Leoni si entra invece nel Salone della Pace, così chiamato in omaggio alla fine vittoriosa della Grande Guerra e successivamente nella sala della musica e poi nella chiesa, imitazione della cattedrale di Cordova con il caratteristico soffitto a volte in bianco e nero. Qui c’è una sorpresa e ogni elemento architettonico non è quello che sembra, ma per scoprire il tutto è consigliabile una visita sul posto e prestare molta attenzione a ogni particolare.
Accanto alla chiesa si trova il Salone dei Novanta, così chiamato perché il conte avrebbe voluto tenervi un banchetto di vecchi nonagenari quando avrebbe raggiunto tale età. Morì però prima del completamento del salone che è stata terminata comunque dal figlio adottivo Mario Venturoli Mattei. In realtà, però, anche questa sala nasconde un significato esoterico ben preciso: probabilmente doveva essere adibita alla meditazione e al recupero delle energie poiché la sua forma esagonale rimanda al Sigillo di Salomone e quindi alla ricerca spiritualità mentre i dodici spicchi sul pavimento hanno una valenza simbolica e sacra; insomma una vera e propria sala con funzione di amuleto. Inoltre la forma a l’esagono della stanza misura circa dieci metri di lunghezza e circa sei di lato che in proporzione determinano il valore della sezione aurea. A Rocchetta Mattei tutto ha un senso compiuto.
Il castello non è solo uno sterile sfoggio estetico di stili e di architetture ma è fondamentalmente illusione: tutto non è quasi mai come sembra, ma soprattutto per capire la personalità del conte e per comprendere la vera essenza del posto bisogna regalarsi una visita lenta e meditata. Ogni particolare dell’interno come dell’esterno ha un significato che rimanda a simboli propri della scienza ermetica, dell’alchimia e molto vicini in generale alla cultura esoterica.
Degna di nota è certamente la cosiddetta Sala della Visione, sebbene attualmente non accessibile al pubblico. Così chiamata perché proprio qui il conte avrebbe avuto la visione per l’invenzione di una particolare e innovativa scienza medica.
Secondo alcuni studi la Rocchetta è stata creata secondo un disegno ben preciso: tutte le torri corrisponderebbero ai pianeti del sistema solare secondo la mappa copernicana. Il conte Mattei si sarebbe dunque rifatto a un concetto ermetico basilare ossia creare una relazione armonica tra macro e microcosmo. Questo avrebbe generato particolari energie, proprio in quel luogo, utili per moltiplicare gli effetti curativi e benefici dei suoi preparati medicali.
L’enigmatico conte Cesare Mattei
Cesare Mattei è nato a Bologna l’11 gennaio 1809 da Teresa Montignani e Luigi Mattei, proprietari di beni immobili e fondiari nelle zone di Bologna, Budrio e Comacchio. Sin dalla sua adolescenza è entrato in contatto con alcuni dei più importanti e significativi personaggi dell’epoca come Paolo Costa, Gioacchino Rossini e Marco Minghetti.
Già in giovane età ha conquistato prestigio e visibilità, infatti nel 1837 è stato uno dei fondatori della Cassa di Risparmio in Bologna e dieci anni dopo ha ricevuto il titolo di conte da papa Pio IX. Nello stesso periodo però è accaduto un evento che ha segnato in maniera incisiva la sua vita: la morte della madre, avvenuta nel 1845 a causa di un tumore al seno, dopo dieci anni di atroci sofferenze; proprio questo avvenimento lo ha provato duramente e lo ha spinto a studiare da autodidatta nuovi rimedi di medica naturale.
È stato nominato deputato al Consiglio di arruolamento della Guardia Civica Bolognese con il grado di tenente colonnello e Capo dello Stato Maggiore, carica che è stata abbandonata in quanto eletto, il 18 maggio del 1848, deputato al Parlamento di Roma. Ben presto, però, abbandonata la deludente esperienza politica, decise di lasciare Bologna e di ritirarsi nella tenuta di Vigorso di Budrio per dedicarsi completamente ai suoi studi.
Nel 1850 acquistò i terreni dove sorgevano le rovine del castello medievale e iniziò la costruzione della Rocchetta, dirigendone personalmente i lavori e vi si stabilì definitivamente nel 1859.
Per dedicarsi ai suoi medicamenti e al proseguimento dei lavori della dimora che presto divenne anche clinica affidò la gestione finanziaria delle sue attività al nipote Luigi il quale, però, causò una gravissima crisi economica all’insaputa del conte. Una volta scoperto l’inganno diseredò i familiari e affidò la ripresa economica al suo collaboratore Mario Venturoli che, in segno di riconoscenza, decise di adottare nel 1888.
Proprio in questi anni la Rocchetta divenne un centro importante e trovarono lavoro e benessere molte famiglie della zona. Il conte curava gratuitamente le persone indigenti ed era caritatevole con i poveri che si rivolgevano a lui per essere aiutati.
Morì il 3 aprile 1896 all’età di 87 anni e le spoglie, secondo le sue volontà testamentarie, trovano tuttora riposo nella cappella interna della Rocchetta.
Elettromeopatia: la nuova medicina
Cesare Mattei cercò una strada alternativa alla medicina classica elaborando una sintesi di varie pratiche mediche e paramediche già esistenti, tra cui la medicina cinese ma soprattutto le teorie di Samuel Hahnemann, ossia il fondatore dell’omeopatia. Dopo le prime sperimentazioni iniziò la produzione di alcuni particolari preparati esportandoli anche all’estero. Stabilì un deposito centrale a Bologna e nel 1884 arrivò ad avere ben 107 punti di distribuzione in tutto il mondo.
In seguito alla sua morte gli eredi continuarono la produzione e la distribuzione dei cosiddetti «Rimedi Mattei» fino al 1968 quando per vari motivi i laboratori sono stati chiusi. Oggi i rimedi originali non sono più in produzione, ma vengono prodotti preparati simili in alcuni stati come per esempio India, Pakistan e Germania.
Mattei credeva fortemente che per curare una persona fosse indispensabile riportare le cariche elettriche del suo corpo a una situazione di neutralità. Per farlo somministrava ai pazienti dei granuli medicati derivati da trentatré piante spontanee ed erbe officinali degli appennini che faceva interagire con cinque fluidi elettrificati in grado di ristabilire l’equilibrio tra la polarità positiva e quella negativa e ricondurre la parte dolente allo stato neutrale (concetto mutuato dalla medicina cinese).
Per i suoi preparati Mattei usava varie erbe medicinali, ma nei suoi scritti ha ribadito più volte che avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati usando una qualsiasi essenza, perché non era tanto importante l’erba usata quanto il metodo di preparazione e il modo in cui "caricava i fluidi". Ad ogni modo non utilizzava erbe tossiche o velenose e neppure sali minerali (come mercurio, arsenico e piombo) come invece succede spesso nei preparati classici dell’omeopatia.
La posologia era molto complessa, con un’infinità di accorgimenti, di aggiustamenti e di modificazioni a seconda della malattia da curare e veniva descritta in precisi vademecum. Tutti i rimedi erano lavorati e formulati in maniera segreta. I granuli erano suddivisi in otto categorie sulla base del loro effetto: Antiscrofolosi, Anticancerosi, Antiangioitici, Febbrifughi, Pettorali, Anti linfatici, Vermifughi e Anti venerei. I liquidi o "fluidi elettrici", invece, erano suddivisi in base alla loro polarizzazione: Fluido Elettricità Rossa (++), Fluido Elettricità Azzurra (+), Fluido Elettricità Bianca (neutra), Fluido Elettricità Gialla (-), Fluido Elettricità Verde (- -). Questi colori hanno dato poi il nome anche ad alcune camere all’interno del castello.
I procedimenti esatti usati dallo scienziato rimangono tuttora sconosciuti dal momento che i suoi scritti sono andati perduti. Forse, però, il motivo è essenzialmente un altro: la chiara volontà dello stesso conte di non tramandare queste conoscenze per non farle cadere in mani sbagliate, infatti proprio per questo motivo aveva costruito un ingegnoso sistema con un ponte levatoio che permetteva l’accesso riservato alla sua camera privata.
Ritorniamo all’inizio e a quello strano epitaffio sulla tomba del conte: cosa voleva significare? Forse racchiudeva addirittura il senso dell’esistenza? Cosa intendeva “per stelle di XVI grandezza”?
Cesare Mattei scelse l’epitaffio per la sua lapide diversi anni prima della sua morte. Egli desiderava giungesse ai posteri come un messaggio di vita eterna e testimoniare l'esistenza di una coscienza infinita che risiede nel microcosmo di ognuno di noi come nel macrocosmo dell’universo. Perciò sulla lapide volle omettere nome, cognome, simbolo araldico, così come le date di nascita e morte. Questo come segno tangibile dell’infinito della sua vita, dell’esistenza di ognuno e della stessa Rocchetta Mattei.
«Un numero magico… si potrebbe quasi dire che a scrivere questo numero sia stata la “mano di Dio” e che noi non sappiamo come Egli abbia mosso la sua matita». Così si esprimeva il fisico teorico Richard Feynman. Qual è questo numero magico? Wolfgang Pauli, un altro fisico teorico austriaco, ricercatore di punta nell’ambito dello sviluppo della meccanica quantistica asseriva che se Dio gli avesse concesso di chiedergli qualsiasi cosa la sua prima domanda sarebbe stata: «Perché 137?». Abdus Salam (premio Nobel per la fisica nel 1979) e collega di Pauli si divertì a immaginare una maliziosa conclusione di questa ipotetica storia: Dio a quel punto avrebbe preso un gessetto e avrebbe cominciato a illustrare il perché proprio di quel numero. Dopo qualche istante sicuramente Pauli avrebbe scosso la testa.
Allora, cosa si nasconde dietro questo numero solo all’apparenza come tanti?
La costante di struttura fine
Senza addentrarsi troppo nel tecnicismo di discorsi scientifici, per capire cosa significa realmente il numero 137 e per entrare nel suo mistero bisogna parlare brevemente della cosiddetta costante di struttura fine. Questa è una costante introdotta da Arnold Sommerfeld nel 1916 derivante da altre importanti costanti della fisica e risultata fondamentale per descrivere la velocità con cui si muovono gli elettroni attorno al nucleo di un atomo sul primo orbitale.
Come riporta Max Born nel suo lavoro The Mysterious Number 137 la costante «ha le conseguenze più fondamentali per la struttura della materia in generale». Tale costante, indicata generalmente mediante la lettera greca α, definisce la scala degli oggetti naturali: le dimensioni degli atomi, l'intensità e i colori della luce e l'intensità delle forze elettromagnetiche. In sostanza controlla e ordina tutto ciò che vediamo e in particolare, estremizzando al massimo ma con fondamento scientifico, permette l’esistenza delle forme di vita. Il punto reale di incrocio tra la materia e il divino.
In termini matematici nella teoria quantistica la costante dal valore 1/137 mette in relazione la carica dell'elettrone con altre due costanti fondamentali:
Nel libro La particella di Dio scritto da Leon Lederman l’autore riporta un passaggio importante: «La cosa più notevole a proposito di questo numero è che esso è privo di dimensioni [...]. Molti numeri si presentano con dimensioni. Ma risulta che, quando si combinano tutte le quantità che costituiscono la costante di struttura fine, tutte le unità si cancellano! 137 si presenta da solo; si presenta ovunque in tutta la sua spoglia nudità. Ciò significa che gli scienziati di Marte o del quattordicesimo pianeta della stella Sirio, usando qualsiasi accidente d'unità per la carica e la velocità e la loro versione della costante di Planck, otterrebbero sempre 137. Si tratta di un numero puro».
I fisici si sono scervellati sul numero 137 negli ultimi 50 anni. Werner Heisenberg (a cui dobbiamo il famoso "principio d'indeterminazione" ossia uno dei pilastri della fisica quantistica) affermò una volta che tutti i dilemmi della meccanica quantistica si sarebbero risolti non appena si fosse finalmente spiegato il 137.
Un altro scienziato, Wolfang Pauli, come abbiamo già visto, era letteralmente ossessionato dal 137 e passava innumerevoli ore a meditare sul suo significato.
Pauli e l’ossessione per il 137
Wolfgang Ernst Pauli (Vienna, 25 aprile 1900 – Zurigo, 15 dicembre 1958) è stato un fisico austriaco tra i padri fondatori della meccanica quantistica e vincitore del Premio Nobel nel 1945 con i suoi studi secondo i quali due elettroni in un atomo non possono avere tutti i numeri quantici uguali. È famoso anche per il cosiddetto effetto Pauli che è un'espressione gergale secondo la quale tutte le volte che entrava in un laboratorio avvenivano dei malfunzionamenti alla strumentazione, tanto che il collega Otto Stern gli impose di non entrare assolutamente nel suo laboratorio. Siccome credeva a fenomeni parapsicologici arrivò a ritenere che questi effetti fossero dovuti alle sue manifestazioni psichiche.
Egli venne soprannominato “Flagello di Dio” per il suo carattere irruento.
Il 137 per Pauli è stata una vera e propria ossessione e tale è rimasta fino al giorno della sua morte. Egli, infatti, morì nella camera numero 137 dell’Ospedale di Zurigo. Pochi giorni prima del decesso all'assistente Charles Enz recatosi in visita nella sua stanza d'ospedale disse: «Non uscirò mai vivo da qui!». Pochi giorni dopo, il 15 dicembre 1958, Wolfgang Pauli, morì proprio nella stanza 137.
Lo stesso scienziato amava dire scherzosamente: «Quando morirò la mia prima domanda al Diavolo sarà: qual è il significato della costante di struttura fine?»; ma, come abbiamo visto, avrebbe voluto fare la stessa domanda anche a Dio.
137 matematico
Studiando più da vicino il numero 137 scopriamo che è un numero primo, cioè non è divisibile se non per sé stesso e per l'unità, ma che è anche un numero puro o adimensionale cioè è una grandezza fisica esprimibile semplicemente come un numero senza alcuna unità di misura.
Il numero 1/137 potrebbe avere un ruolo importante nella cosiddetta Grande Teoria Unificata: la relatività, l'elettromagnetismo e la meccanica unificate e collegate proprio tramite questo numero.
Tale costante misura l'interazione di particelle cariche come gli elettroni con i campi elettromagnetici. Alfa determina quanto velocemente un atomo eccitato può emettere un fotone.
Gli scienziati hanno potuto osservare uno schema di spostamento di luce proveniente dagli atomi chiamato, come abbiamo visto, costante di struttura fine (da cui la costante prende il nome). Questa struttura fine è stata riscontrata nella luce solare e nella luce proveniente da altre stelle. La costante figura anche in altre situazioni: perché la natura insiste su questo numero? Finora non c'è stata una spiegazione completa ed esaustiva.
A proposito, invece, della sua proprietà come numero primo si scoprono delle strane ma interessanti ambivalenze matematiche. 137 è il 33° numero primo, ma il 12° è il 37 mentre il 21° è il 73; come si può notare 12 e 21 sono ambigrammi come gli stessi 73 e 37. Inoltre la somma posizionale di questi numeri primi è 66. Il 66° numero primo è il 317. Quindi ancora un 137 in movimento con la rotazione delle sue due prime cifre. Strani scherzi matematici ma che dimostrano ulteriormente la perfezione di questo numero.
Oltre la matematica: la profezia dei Simpson
Oltre la matematica, però, c’è di più. Il numero137 è il valore numerico della parola Cabala (Quf-Beit-Lamed-Hey = 100-2-30-5). In altri termini, come abbiamo visto, è il rapporto tra la velocità della luce e quella dell'elettrone in orbita intorno al nucleo dell'atomo di idrogeno: esso governa il legame che c'è tra materia e luce. Rappresenta dunque due opposti: energia e materia, luce e oscurità e in mezzo ad essi c’è il numero 137; per uno strano caso, ma non troppo, la parola Cabala indica e significa proprio "corrispondenza".
Sommando le cifre che compongono il numero (1+3+7) si ottiene il numero 11 che a livello cabalistico indica l’apertura della porta del “sopra” al mondo del “sotto” secondo la famosa espressione “come in cielo così in terra”. Il numero 11 è la cosiddetta sephrot Da’at ossia la porta del cuore, il luogo in cui l’emozione si esprime col dovuto equilibrio tra ragione e sentimento.
Ma c’è di più. Secondo il fisico Laurence Eaves, professore alla University of Nottingham, il numero 137 potrebbe segnalare ipoteticamente ai visitatori alieni l’indicazione che abbiamo una certa padronanza del nostro pianeta e certificare le nostre competenze in ambito della meccanica quantistica. Si potrebbe così creare un metodo di comunicazione ambivalente a livello scientifico sottoforma di linguaggio universale con eventuali entità extraterrestri.
Se il riferimento agli alieni potrebbe sembrare ardito quello che stiamo per vedere forse lo è ancora di più: stiamo parlando della serie televisiva dei Simpson. Cosa c’entra il 137 con la nota serie di cartoni animati? È noto che in diversi episodi sono stati inseriti alcuni avvenimenti che poi si sono profeticamente avverati. Preveggenza o semplice casualità? Sta di fatto che la cosa è avvenuta anche per il numero 137: la scena apparve per pochi secondi nell’episodio The Wizard of Evergreen Terrace, il secondo della decima stagione e fu subito notata da Simon Singh, divulgatore scientifico con un dottorato di ricerca in fisica. Pochi secondi, forse passati inosservati ai più, mentre l’ingenuo protagonista scarabocchiava dei numeri con un gessetto su una lavagna. Singh avrebbe presto scoperto che alcuni autori della serie possedevano una formazione matematica e scientifica di altissimo livello. Perché il caso esploda davvero bisognerà attendere il primo marzo del 2015 quando lo stesso Singh ribadirà con maggiore enfasi su The Independent che l’inetto abitante di Springfield era riuscito a predire il valore numerico della massa del bosone di Higgs ben 14 anni prima che ne venisse annunciata la scoperta al CERN di Ginevra e con esso indirettamente anche il famigerato numero 137.
Forse niente di nuovo se si pensa che sulla lavagna di fronte alla quale Enrico Fermi è stato fotografato, gesso in mano, il 26 marzo 1948 la formula della costante di struttura fine sarebbe stata posta sulla sua testa ed evidenziata con la stessa lettera greca α. Solo uno scherzo? Solo una strana coincidenza? Sta di fatto che la foto di Fermi è molto simile al fotogramma della puntata dei Simpson.
Il cosiddetto numero di Dio non è solo un mistero matematico. Scriveva ancora Richard Feynman: «Questo numero costituisce un vero rompicapo fin da quando fu scoperto, e tutti i migliori fisici teorici lo tengono incorniciato e appeso al muro e ogni giorno ci meditano su. Vi chiederete subito da dove venga questo valore: è connesso a π, o magari alla base dei logaritmi naturali? Nessuno lo sa. È uno dei più enigmatici enigmi della fisica, un numero magico che ci viene offerto nel mistero più assoluto. […] Sappiamo perfettamente che cosa fare sperimentalmente per avere una misura accuratissima di questo valore, ma non sappiamo che arzigogolo inventare per farlo venir fuori da un calcolatore, senza avercelo messo dentro di nascosto!».
«Sorge nell'alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte […] dentro vi sono tutte l'arti, e l'inventori loro, e li diversi modi, come s'usano in diverse regioni del mondo».
I versi sibillini del testo appena citato sono tratti dall’opera filosofica del 1602 La Città del Sole di Tommaso Campanella che, richiamandosi alla Repubblica di Platone, presentava in forma dialogica il confronto di due personaggi: l'Ospitalario, un cavaliere dell'ordine di Malta e il Genovese ossia il nocchiero di Cristoforo Colombo. Quest’ultimo raccontava di aver scoperto una città governata con leggi e costumi perfetti individuata nell'isola di Taprobana durante uno dei suoi viaggi in giro per il mondo.
Nella città ideale prefigurata dal filosofo religioso calabrese il potere spirituale e temporale erano detenuti da un Principe Sacerdote, anche chiamato con gli appellativi di Sole o Metafisico.
La città, a forma circolare, era situata su un colle ed era costituita da sette mura che prendevano il nome dai sette pianeti. Gli abitanti non conoscevano egoismi, gli orrori della guerra e della fame e le violenze. La città era organizzata in modo totalmente razionale ed era controllata da un gruppo di persone chiamati offiziali che vigilavano continuamente in modo che nessuno potesse compiere azioni non giuste nei confronti degli altri cittadini.
Come si può notare, al netto dei riferimenti esoterici ben evidenti rispetto ai nomi dei due protagonisti (uno collegato a un ordine cavalleresco e l’altro al titolo di riconoscimento riservato al Gran Maestro del Priorato di Sion) e al richiamo della tradizione mistica egizia della divinità del Sole incarnata dall’autorità sacerdotale, è chiara la volontà di Campanella di voler descrivere una società utopica e perfetta, quasi irrealizzabile nella realtà. Eppure il sogno antico di Tommaso Campanella a quanto pare dopo molti secoli forse è diventato realtà.
Auroville: la città perfetta
La moderna Città del Sole dopo oltre quattrocento anni dalla sua prefigurazione letteraria si è materializzata. Auroville si trova nell’India meridionale, in quello che fino a qualche decennio fa era solo un deserto di sabbia rossa. Una città internazionale organizzata sin dalla sua fondazione senza denaro, senza forme di governo e di religione come siamo abituati a concepirli e senza l’urbanizzazione selvaggia tipica delle metropoli occidentali. Un nuovo concetto di città costruita su misura per tutte le persone, per i movimenti culturali e per le organizzazioni di vario genere che vogliono contribuire significativamente al progresso della comunità.
La città è stata fondata il 28 febbraio 1968 da un gruppo di giovani hippy sotto le direttive di Mirra “La Madre” Alfassa, una misteriosa donna di origini francesi e devota collaboratrice spirituale del filosofo indipendentista indiano Sri Aurobindo. I suoi valori di riferimento richiamavano lo spiritualismo induista, il comunitarismo gandhiano, il marxismo e l’anarchismo.
L’urbanizzazione è stata disegnata dall'architetto Roger Anger e all’atto della fondazione i rappresentanti di 124 nazioni si sono riuniti nell’altopiano; ognuno di loro ha portato con sé una manciata di terra dalla propria nazione per depositarla in un’urna di marmo a forma di fiore di loto.
La città è divisa in quattro zone con specifiche funzioni: industriale, internazionale, culturale e residenziale. L’agglomerato ospita circa 2.500 residenti permanenti di 45 nazionalità e circa 5.000 visitatori di cui la maggior parte turisti o volontari stranieri alla ricerca di un’esperienza di vita differente. Per divenire residenti permanenti è richiesto ai nuovi arrivati di contribuire attivamente per almeno due anni alle attività cittadine, senza mai allontanarsi. Un comitato ristretto analizza poi le richieste di residenza (proprio come avveniva con gli offiziali di Campanella) e a ogni nuovo cittadino viene richiesto come primo gesto quello di piantare un albero. Dalla sua fondazione ad oggi Auroville ha dato vita così a una foresta in mezzo al deserto.
La cosiddetta “città dell’aurora” ha l’ambizione di diventare un punto di riferimento per lo sviluppo ecosostenibile e l’innovazione sociale; la città, infatti, è autosufficiente energeticamente grazie prevalentemente allo sfruttamento dell’energia solare. Si fonda sull’agricoltura biologica, sul riciclaggio della quasi totalità dei materiali e sulla costruzione con tecniche di bioedilizia.
Il sistema economico-sociale è basato sulla proprietà collettiva, senza avere tuttavia un sistema normativo e senza la presenza delle forze dell’ordine. La cultura artistica spontanea, la quiete e la meditazione sono i principi cardini della vita quotidiana.
L’intera comunità è finanziata dall’Unesco, dalla Comunità Europea, dal governo indiano e da donazioni private che insieme contribuiscono al bilancio complessivo annuale. L’allocazione dei fondi è decisa collettivamente e i profitti delle unità produttive vengono spartiti equamente tra le casse comunali e i progetti specifici proposti dalla cittadinanza a supporto delle imprese locali e per il bene comune. Essendo, pertanto, i profitti di ognuno spartiti col resto della comunità, ogni cittadino non percepisce un salario bensì una specie di reddito di cittadinanza. Ad Auroville, infatti, la proprietà è collettiva ossia ciò che viene realizzato dai suoi abitanti non può essere venduto e qualsiasi attività è basata sul volontariato. Ogni cittadino è tenuto a lavorare almeno cinque ore al giorno per sostenere la comunità. Questo aspetto richiama molto da vicino la struttura sociale dell'isola di Taprobana descritta da Campanella dove gli abitanti lavoravano per sole quattro ore al giorno. Il tempo restante veniva impiegato in attività ricreative e ludiche che però dovevano sempre avere un fine culturale.
Ad Auroville esiste una zona dedicata alla meditazione e alla ricerca spirituale, ma non c’è una religione ufficiale: ogni cittadino è libero di professare il proprio credo.
Questa è l’immagine di facciata della città perfetta, ma a un’analisi più attenta si possono evidenziare elementi riconducibili a una matrice esoterica che porta alla luce vari spunti interessanti di riflessione.
Gli aspetti esoterici
In prima battuta bisogna partire proprio dal nome stesso della città. Auroville ha certamente una doppia valenza: da un lato è possibile evidenziare il riferimento alla “città dell’aurora” e dall’altro si può notare il suffisso “auro” che richiama l’elemento dell’oro. I due significati sono concettualmente collegabili e sovrapponibili; infatti, l'aurora è l'apparizione della luce, dorata e talvolta rosea o purpurea che appare nel cielo poco prima del sorgere proprio del sole. Ecco che quindi torna in maniera piena il riferimento al componimento di Campanella e si conferma il fatto che la città sia stata ideata pensando proprio alla Città del Sole o comunque al sole come elemento naturale. Ovviamente questo riferimento alla stella solare ha anche soprattutto una valenza religiosa perché richiama la divinità Ra egiziana. Allo stesso modo il riferimento aureo, invece, va letto nell’ambito della scienza alchemica come perfezionamento ultimo del processo e della trasmutazione del vile metallo in oro. Ovviamente l’oro è un simbolo mediato indicativo, partendo già dal suo colore giallo, proprio del sole. Entrambi questi aspetti del nome della città sono riconducibili molto probabilmente al background culturale ed esoterico della fondatrice della città. Mirra “La Madre” Alfassa, infatti, è stata senza dubbio una personalità particolare, già a partire dal nome che, come è evidente, fa riferimento chiaramente alla dea madre primordiale e creatrice dal cui grembo mitologicamente si è generato il mondo e simbolicamente in questo caso una nuova idea di città e di comunità.
Allo stesso modo, come abbiamo già accennato, proprio all’atto della fondazione ci fu una cerimonia dall’alto valore simbolico ed esoterico: i partecipanti di varie nazioni hanno portato un pugno della loro terra; questo oltre a richiamare il valore divinatorio e primordiale ancora della Madre Terra ha anche un collegamento biblico non di poco conto. Richiama, infatti, l’episodio della creazione di Adamo e quindi per estensione la nascita di una nuova entità grazie all’intervento divino.
La città, inoltre, vista dall’alto ha proprio la forma di un occhio e richiamerebbe ovviamente allo stereotipo dell’occhio onniveggente divino con implicazioni esoteriche non di poco conto.
Senza ombra di dubbio, inoltre, è possibile di fatto individuare nell’enclave il culto del sole. Infatti, il progetto originale della città è stato ideato dall’architetto francese Roger Anger che immaginava Auroville come una “galassia” con al centro un’enorme sfera dorata utilizzata per la meditazione chiamata Matrimandir. Al suo interno è presente una sala circolare in marmo bianco e rappresenta il principale luogo di meditazione frequentato dai residenti. Al centro è presente una sfera di cristallo dal diametro di settanta centimetri che raccoglie i raggi del sole riflessi da uno specchio sul tetto.
Questo richiama molto da vicino il tempio descritto ancora una volta nella Città del Sole che infatti era proprio di forma circolare ed era costituito da grandi colonne sopra le quali sorgeva una cupola al cui interno figurava la sfera celeste.
Gli abitanti di Auroville, inoltre, possono pranzare in uno spazio comune chiamato “Solar Kitchen” ossia una gigantesca mensa vegetariana dove si cucina solo ed esclusivamente grazie all’energia solare. In sostanza, dunque, i collegamenti con la Città del Sole sono ben evidenti.
Diceva in un passo uno dei personaggi di Campanella: «Questa è una gente ch'arrivò là dall'Indie, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina di Mogori e d'altri predoni e tiranni; onde si risolsero di vivere alla filosofica in commune, si ben la communità delle donne non si usa tra le genti della provinzia loro; ma essi l'usano, ed è questo il modo. Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare cosa alcuna. Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l'amor proprio; ché per sublimar a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, si è impotente. Ma quando perdono l'amor proprio, resta il commune solo».
Niente di nuovo, dunque, sotto il sole splendente di Auroville.