Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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“Di che segno sei?”. Per coloro che sono nati nel periodo che va dal 30 novembre al 17 dicembre la risposta dovrebbe essere “Sagittario!”. In realtà non è propriamente così. Esisterebbe, infatti, un tredicesimo segno zodiacale da inserire proprio a cavallo tra lo Scorpione e il Sagittario. Si tratta del segno dell’Ofiuco, collegato all’omonima costellazione già menzionata anche da Tolomeo, il padre dell’astrologia classica. Tra le tredici costellazioni dello zodiaco moderno è l'unica che, stranamente, non ha dato il nome a un segno astrologico.
Come mai si è verificata questa mancata attribuzione? Per capirne le ragioni e i risvolti nascosti bisogna procedere con ordine.
Che cos’è lo zodiaco
L’oroscopo, come sappiamo, è formato da dodici segni zodiacali. In astrologia esistono, però, due differenti sistemi zodiacali di riferimento, detti rispettivamente “zodiaco siderale” e “zodiaco tropicale”. Il primo si riferisce alle dodici costellazioni situate sull'eclittica celeste e che riproducono le figure dalle quali prendono il nome proprio i segni zodiacali; il secondo rappresenta, invece, la suddivisione dell'eclittica in dodici parti uguali, indipendentemente dall’ampiezza della costellazione.
Il tredicesimo segno
Proprio tenendo conto di queste considerazioni basilari entra in gioco il segno dell’Ofiuco; questo, come detto, è stato occultato nello zodiaco tropicale e si trova dietro il sole tra il 30 novembre e il 17 dicembre, modificando non solo il riferimento temporale classico del sagittario, ma a cascata anche degli altri segni.
Nel 1970 Stephen Schmidt ha proposto uno zodiaco addirittura di quattordici segni (includendo anche quello della Balena); nel 1995, invece, Walter Berg e Mark Yazaki hanno avanzato l’ipotesi di uno zodiaco di tredici segni; questa impostazione riscosse un buon successo soprattutto in Giappone.
L'Ofiuco è una grande costellazione, la cui parte meridionale ricade sulla Via Lattea in direzione del centro galattico. Si estende a cavallo dell'equatore celeste e questa posizione la rende visibile completamente da quasi tutte le aree della Terra, ad eccezione di quelle polari. Le stelle più luminose sono α Ophiuchi chiamata “Rasalhague” alla testa della figura e η Ophiuchi, visibile nella parte meridionale. Il periodo più adatto per l'osservazione va da maggio a ottobre, mentre nell'emisfero boreale è una figura tipica del cielo estivo.
I nati sotto questo segno vengono descritti come eremiti, saggi che portano l'illuminazione sulla terra o ancora filantropi, ambientalisti, amanti degli animali e della natura e si battono fortemente per i loro ideali supportati dalla solidità della loro etica; spesso possiedono doti o interessi nel campo del benessere psico-fisico.
Storicamente l’assenza di questo segno nell'oroscopo è imputabile principalmente al fatto che per i Greci e per l'astrologia Vedica i segni non sono semplicemente i corrispettivi delle costellazioni, ma un’arbitraria e precisa suddivisione dell'eclittica solare in dodici parti uguali; il sole transita nella costellazione dell’Ofiuco solo per diciannove giorni, molti di meno rispetto alle altre per esser preso in considerazione. Si tratta solo ed esclusivamente di questo?
L’origine mitologica
Ofiuco significa "colui che porta il serpente" o anche "serpentario" ovvero "colui che domina il serpente”.
La sua rappresentazione tipica è quella di un uomo barbuto con un enorme serpente avvolto attorno al suo corpo. Egli tiene la testa del serpente nella mano sinistra e la coda nella mano destra. L’uomo della rappresentazione mitologicamente è riconosciuto nella figura di Asclepio, il dio della medicina. I Greci, infatti, identificarono Ofiuco proprio con Asclepio, ossia il figlio di Apollo e di Coronis. Secondo la leggenda Coronis tradì Apollo con il mortale Ischys mentre aspettava un figlio da Apollo. In un impeto di gelosia Apollo colpì Coronis con una freccia. Piuttosto che vedere il suo bambino morire, strappò il feto dal grembo della madre e lo affidò a Chirone, il centauro saggio. Egli lo fece crescere come un figlio e gli insegnò le tecniche soprannaturali della guarigione. Asclepio divenne talmente abile nella medicina che non solo riusciva a salvare le vite umane, ma addirittura resuscitava i morti.
Un episodio particolare si verificò, infatti, con Glauco, il giovane figlio del re Minosse; mentre stava giocando cadde dentro un barattolo di miele e vi annegò; mentre Asclepio assisteva alla scena si avvicinò un serpente. Lui prontamente lo uccise con il suo bastone; allora si fece avanti un altro serpente con in bocca un'erba che depose sul corpo di quello morto che magicamente ritornò in vita. Asclepio prese la stessa erba e la pose sul corpo di Glauco e l'effetto magico si ripeté.
Un altro fatto simile si ripeté anche con Ippolito, figlio di Teseo, che morì precipitando dal suo carro. Mentre prendeva le erbe guaritrici, Asclepio toccò per tre volte il torace del ragazzo pronunciando parole propiziatrici e Ippolito ritornò in vita.
Asclepio ricevette dalla dea Atena il dono di cambiare il suo sangue con quello di Medusa la Gorgone. Da allora il sangue che sgorgava dalle vene del suo fianco sinistro era velenoso e portatore di sventure, mentre quello del fianco destro aveva il potere di guarire qualsiasi malattia e persino di fare risorgere i morti.
Ade, dio del mondo dell'oltretomba, si rese presto conto che il flusso di anime morte in transito nel suo regno si sarebbe drasticamente ridotto se questa tecnica soprannaturale di guarigione fosse diventata di conoscenza comune. Protestò con suo fratello Zeus e questi colpì Asclepio con una folgore. Zeus rese Asclepio immortale e lo tramutò nella costellazione dell’Ofiuco.
Il significato nascosto del serpente
Fin qui la cornice mitologica. Partendo da questi aspetti, però, è possibile rintracciarne altri che aprono la strada a un’analisi più approfondita. Certamente la rappresentazione dell’uomo barbuto con il serpente in mano porta al centro dell’analisi proprio il serpente; questo in prima battuta richiama al simbolo fallico, quindi alla capacità riproduttiva e, allargando la visuale, alla creazione come concetto più ampio che si ricollega ovviamente anche alla creazione di matrice biblica. Non a caso il serpente lo ritroviamo in Genesi e nel famoso episodio del peccato originale. Questo animale ha una particolare caratteristica: muta la propria pelle ogni anno, come se ogni volta rinascesse. Ecco, quindi, che ritorna il concetto della rinascita che si può riscontrare anche nella mitologia di Asclepio.
Nell’antico Egitto la costellazione dell’Ofiuco era collegata a un uomo realmente esistito e la cui vicenda era mitizzata in un personaggio dai contorni vaganti storici chiamato Imhotep (“Colui che viene in pace”) vissuto intorno al 3.000 A.C. Diverse fonti lo descrivono come un ministro famoso per esser stato un grande architetto e, soprattutto, per aver fondato la medicina egizia. A Imhotep, inoltre, è attribuita l'introduzione dell’elemento architettonico della colonna e la costruzione della prima piramide, quella a gradoni di Saqqara nel complesso funerario di Djoser.
Come è possibile notare in questo personaggio e nel suo alone mitologico sono condensati alcuni elementi distintivi che saranno poi ripresi in ambito massonico: la figura del grande architetto come entità suprema, ma richiama anche la figura del costruttore Hiram Abif; alla sua morte è collega il simbolo dell’acacia che spuntò dalla sua tomba come simbolo di rinascita. Potrebbe trattarsi della stessa pianta miracolosa indicata nella storia di Asclepio? Anche in questo caso ritorna prepotente il concetto della rinascita.
Stranamente nella cultura dell’antico Egitto troviamo una rappresentazione del serpente alato tenuto in mano da una donna. Un’immagine che si ricollega a quella classica dell’iconografia cristiana della vergine che schiaccia il serpente sotto il calcagno e che indica la vittoria sul peccato, incarnato proprio dall’animale strisciante.
È importante notare, inoltre, che l’Ofiuco abbraccia un arco temporale a ridosso della festività del Sol invictus che si celebrava il 25 dicembre e che era strettamente collegato ancora una volta al tema della rinascita del sole.
Molto probabilmente, dunque, l’oscuramento del Serpentario è dovuto a un’accurata opera di occultamento di conoscenze e simbolismi che dovevano restare nascosti. Una conferma potrebbe arrivare dal fatto che la parola “serpente” in ebraico si dice “nachàsc” che ha la medesima radice semantica che sta a indicare l’atto di conoscere in anticipo le intenzioni, ma anche la conoscenza mantenuta segreta. Questo concetto è emblematico se pensiamo alla vicenda biblica della tentazione di Eva proprio da parte del serpente, strettamente collegato, guarda caso, proprio all’albero della conoscenza.
Nelle antiche scuole mistiche il simbolo per indicare la parola era proprio il serpente; questo, inoltre, era l’emblema sacro per i faraoni, mentre la setta degli Esseni lo considerava un simbolo terapeutico. Addirittura nel libro di Enoch è descritto un angelo guardiano chiamato “Kashdejan” che aveva enormi conoscenze mediche ed era assistito proprio da un serpente molto sapiente.
A livello esoterico, dunque, il serpente ha una valenza ambivalente: da un lato rappresenta il male, ma è anche il detentore di un sapere riservato. Non a caso nelle vicende bibliche il serpente viene etichettato come il più astuto degli animali, molto probabilmente anche per le conoscenze iniziatiche che aveva; lo stesso serpente convince Eva barattando il peccato con la conoscenza del bene e del male che implica un sapere iniziatico, ma può avere anche un’eccezione medica e riferita al benessere fisico. Il cerchio si chiude: ritornano tuti gli elementi mitologici di Asclepio.
Gli aspetti esoterici
L’iconografia classica dell’Ofiuco, alla luce di queste ultime considerazioni, appare ora più chiara ed è possibile ipotizzare delle linee interpretative.
L’uomo barbuto che tiene in mano il serpente sembra quasi nell’atto di stenderlo. Notoriamente il serpente è sempre rappresentato attorcigliato a un albero, a un bastone o addirittura mentre si morde la coda. Non a caso lo stesso serpente attorcigliato a un bastone è il simbolo delle professioni mediche e richiama alla memoria anche la vicenda biblica di Mosè. Il serpente, dunque, sembra essere collegato al benessere fisico, come si può anche notare tenendo conto della tradizione tantrica di Kundalini, ossia della rinascita dell’energia serpentina attorcigliata e sopita e che può essere ridestata azionando i punti energetici dei chakra. Il Kundalini può generare energia positiva solo distendendosi verso l’alto.
Mettendo a sistema questi nuovi elementi è possibile rintracciare il vero significato del Serpentario e l’ipotetico motivo dell’occultamento di questo segno zodiacale. Al serpente è legato da un lato la conoscenza segreta e iniziatica e dall’altro il concetto della rinascita e della guarigione. Tutto questo ci riconduce al mito della guarigione tramite le erbe miracolose. Possiamo, dunque, concludere che il Serpentario fosse la rappresentazione mediata della trasmissione di conoscenze mediche segrete per la vita eterna?
C’è, infine, un altro episodio molto curioso legato al Serpentario. Il 17 gennaio 1967 fu pubblicato un piccolo opuscolo in lingua francese chiamato "Le Serpent Rouge. Notes sur Saint Germaine de Pres et Saint Sulpice de Paris".
Il libro, guarda caso composto proprio da tredici pagine, era stato scritto da tre francesi: Pierre Feugere, Louis Saint-Maxent e Gaston De Koker. I tre autori morirono subito dopo la pubblicazione in circostanze poco chiare. Ogni pagina conteneva strani versi riferiti ai segni zodiacali che includevano anche quello dell’Ofiuco. Sibillini appaiono proprio i versi riferiti al tredicesimo segno:
“Maledicendo i profanatori nelle loro ceneri e coloro che vivono sulle loro tracce, uscendo dall'abisso dove era stato tuffato, compiendo il gesto d'orrore: "Ecco la prova che del sigillo di SALOMONE io conosco il segreto, che xxxxxxxx di questa REGINA ho visitato le dimore nascoste". A questo, Amico Lettore, guardati di aggiungere o togliere uno iota ... Medita, medita ancora, il vile piombo del mio scritto contiene forse l'oro più puro”.
La trasformazione del piombo in oro è l’azione alchemica fondamentale per giungere alla realizzazione della pietra filosofale che, guarda caso, fornisce l’immortalità e la conoscenza assoluta del bene e del male.
“Buon cammino”. Con questa semplice frase si salutano centinaia di volte le persone che si mettono in cammino. Buon umore, zaino in spalla e tanta strada da fare nella maggior parte dei casi a piedi, ma anche in bici o a cavallo.
Il Cammino di Santiago di Compostela è il percorso che i pellegrini di tutto il mondo, fin dal Medioevo, intraprendono attraversando la Francia e la Spagna, per giungere al santuario situato all’estremo nord della penisola iberica, dove è custodita la tomba dell'Apostolo Giacomo il Maggiore.
Si tratta certamente del pellegrinaggio più importante della cristianità, infatti le strade francesi e spagnole, parti integranti dell'itinerario, sono state dichiarate “Patrimonio dell'umanità” dall'UNESCO.
Il simbolo per antonomasia che accompagna i viandanti nella loro fatica è la conchiglia di Santiago, denominata anche “vieiras”; nei secoli scorsi si utilizzava per accreditare i pellegrini che arrivavano a Santiago. Sin dall'antichità la conchiglia indicava metaforicamente la nascita, la vita e la purificazione dello spirito; la sua raffigurazione si ritrova negli affreschi di Pompei e nell’opera “La Venere” di Botticelli. La conchiglia, in particolare con riferimento al suo contenuto, rappresenta anche il basilare nutrimento delle popolazioni costiere. Nella tradizione cristiana, poi, è considerata, in riferimento al guscio, il simbolo della tomba che racchiude il corpo del defunto, dunque, legato al concetto della morte. L'inizio e la fine. Insomma, la vita intesa proprio come un lungo cammino, con un inizio e una fine.
“Il Cammino di Santiago, dunque, solo in apparenza potrebbe essere considerato un fenomeno di costume, ma in realtà rappresenta un’esperienza unica e personale”. È di questo avviso Rosario Recchia, quasi quarant’anni, originario di Ferrandina, un piccolo centro in provincia di Matera. Quest’anno è stato uno degli oltre duecentomila pellegrini che hanno affrontato e terminato il cammino di Santiago. Partenza da Saint Jeau Pied de Port e oltre ottocento chilometri percorsi in trenta tappe, seguendo il percorso più lungo dal versante francese e attraversando tutta la Spagna dai Pirenei all’oceano; un viaggio lento ma affascinante che ha toccato le città di Pamplona, Logroňo, Burgos e Leon, ma soprattutto una miriade di piccoli centri.
Come nasce l’idea di intraprendere il Cammino di Santiago?
Parecchie persone affrontano il cammino di Santiago come semplici turisti o come una prova di trekking, anche se ovviamente la spinta e la valenza principale resta sempre quella religiosa. Magari fanno solo il percorso più breve, quello di soli cento chilometri.
Nel mio caso, invece, ho deciso di affrontare questa prova esclusivamente per un motivo religioso e allo stesso tempo prettamente personale.
Esattamente dieci anni fa le condizioni di salute di mio padre si aggravarono in seguito a una grave forma di cirrosi epatica a tal punto che i medici ormai gli diedero solo poche ore di vita; in quel momento di disperazione e profonda tristezza mi recai a pregare nella piccola cappella dell’ospedale dove era ricoverato mio padre; il giorno successivo, quando ormai ero preparato al peggio ricevetti, invece, una telefonata dai medici che avevano in cura mio padre che mi comunicarono, con grande stupore anche da parte loro, che miracolosamente mio padre si era ripreso; nei giorni successivi le sue condizioni di salute migliorarono progressivamente e in maniera decisa fino alla completa guarigione. Mio padre è poi vissuto in buona salute per altri nove anni. Fu proprio in quel momento che feci una promessa a me stesso e a Dio: non sapevo ovviamente quando mio padre sarebbe morto, ma a un anno esatto da quella data sarei partito per affrontare il cammino di Santiago. Così è stato. Sono passati molti anni, ma non ho mai dimenticato quella promessa che avevo fatto.
Come immaginavi questa avventura prima di partire?
Immaginavo ovviamente tutta la strada da fare e temevo la fatica che si sarebbe accumulata inesorabilmente tappa dopo tappa; pensavo alle difficoltà che avrei potuto incontrare durante il tragitto, in particolare per l’alloggio e per il cibo. Inizialmente addirittura avevo in mente di accamparmi con la tenda. La promessa fatta e lo spirito di avventura, però, sono stati due elementi fondamentali; mi piaceva fantasticare sui posti che avrei visitato e questo aspetto per così dire “turistico” del viaggio stava prendendo il sopravvento nei miei pensieri.
Il cammino di Santiago, però, è un’esperienza unica, profonda, magica e misteriosa; già dopo le prime tappe mi sono reso conto che tutto quello che avevo immaginato nei giorni precedenti alla mia partenza era stato spazzato via inesorabilmente e sostituito da una dimensione più intima, mistica e di profonda riflessione.
Da subito l’elemento fondamentale è diventata la fede, come concetto ampio e dai contorni sfumati, declinata in mille modi nella fatica e nei pensieri dei tanti pellegrini in cammino.
Come ti sei preparato?
La mia preparazione è stata molto lunga: è durata circa quattro anni. In particolare ho comprato tutti i libri che trattavano questo argomento e ho visto i film e i documentari. In particolare ho letto con piacere e ho approfondito lo studio dei libri “La via lattea” di Piergiorgio Odifreddi e Sergio Valzania e “Vado a fare due passi” di Hape Kerkeling. In questi testi oltre ad apprendere informazioni tecniche necessarie per affrontare le varie tappe, ho trovato molti suggerimenti utili per l’approccio psicologico, fondamentale per chi si avvicina a questa prova.
Quali sono stati i pensieri che ti hanno accompagnato, invece, lungo il percorso mentre camminavi?
I pensieri che si affollano nella mente sono moltissimi e ovviamente lungo il cammino c’è una naturale e allo stesso tempo straordinaria propensione a pensare. Nei primi giorni si pensa soprattutto ai segnali da seguire per non perdere la strada; nei giorni successivi, invece, quando ormai hai acquisito una certa dimestichezza con le indicazioni i pensieri che mi hanno accompagnato lungo il tragitto sono stati di varia natura. Sono rimasto sorpreso nel constatare che la mente va a ripescare, senza un motivo apparente, ricordi vecchissimi che avevi quasi rimosso. Ho scoperto, però, che fa parte dell’analisi interiore che stai maturando. Sei in cammino soprattutto verso te stesso.
La bellezza del cammino, infatti, è quella di farti riallacciare il contatto con te stesso e necessariamente sei costretto a fare un’accurata analisi della vita che hai condotto fino a quel momento e come avresti voluto che fosse. Ho capito più cose di me stesso in un mese che in molti anni di vita. Il cammino è un viaggio nel viaggio. Un’esperienza straordinaria dove può succedere di tutto.
Raccontaci qualche aneddoto particolare che ti è capitato lungo il percorso.
Un giorno sono partito alle prime luci dell’alba e tutte le attività commerciali del piccolo paese dove mi ero fermato la sera precedente erano ancora chiuse, così non ho potuto fare la solita colazione abbondante necessaria per affrontare bene la tappa giornaliera. Sono partito lo stesso, ma a metà mattinata ero molto stanco e avevo fame. Non riuscivo più a camminare, così ho deciso di fermarmi per riposare un po’ e recuperare le forze. Mi trovavo in una radura e non si vedeva niente all’orizzonte, solo una distesa sterminata di campi incolti; mi sono seduto su una pietra e ho chiuso gli occhi. Poco dopo mi sono destato perché ho sentito un rumore; ho aperto gli occhi e ho visto un contadino che passava con un cesto. Mi ha rifocillato offrendomi un bicchiere di vino, un po’ di pane e alcune fette di formaggio. Ancora oggi ripensando a questa scena non riesco davvero a capire da dove sia sbucato quel contadino perché la zona era davvero deserta. Ecco questo è il Cammino di Santiago.
Che tipo di rapporto si instaura con le persone che fanno la tua stessa esperienza?
Questo è uno degli aspetti, a mio parere, più importante: riscoprire e valorizzare il rapporto con gli altri. Ti rendi conto che pur nella solitudine dei tuoi passi non sei mai solo. Quasi automaticamente si instaura un rapporto amichevole con tutti i pellegrini che incontri; fai un pezzo di strada da solo e poi li rincontri durante il percorso. La cosa straordinaria è che ci si aiuta vicendevolmente. Più volte mi è capito che persone conosciute da pochi minuti mi abbiano offerto da mangiare e mi abbiano dato dei soldi quando sono rimasto senza. C’è un clima di solidarietà e rispetto; la fede e la religiosità diventano elementi vitali e tangibili. Donare e ricevere diventano azioni quotidiane normali e quasi necessarie.
Io, per esempio, sono partito con uno zaino di oltre dieci chili; lungo il percorso ho donato molti oggetti che avevo a chi in quel momento aveva bisogno con grande piacere e con una naturalezza che mi ha sorpreso. Sono immagini e sensazioni che ti cambiano realmente e che porterò per sempre dentro di me.
Qual è l’immagine più bella che ti porterai dentro di questa esperienza?
Sono davvero tante. Le facce dei tanti pellegrini che ho incontrato. Persone anziane, giovani, malati. Ho visto anche persone sulla sedia a rotella che con passione e dedizione sono arrivate fino alla fine.
C’è un senso estremo di sacralità poi nel vedere lungo il percorso le croci che indicano le persone morte proprio mentre affrontavano il cammino.
Le tappe giornaliere, poi, ti fanno assaporare il contatto vero con la natura e si alternano dei paesaggi davvero incantevoli. Un’immagine, però, in particolare forse riassume il senso di questa avventura: il muro della cattedrale di Burgos dove ho visto una fila interminabile e multicolorata di zaini dei pellegrini affilati per terra. Quella immagine mi sovviene spesso alla mente: indica la diversità che caratterizza ogni persona, ma allo stesso tempo anche la condivisione del cammino e la volontà di arrivare alla fine. Un fotogramma molto bello scolpito nella memoria; in particolare a me ha dato la forza per continuare con una straordinaria e rinnovata determinazione, proprio quando la fatica iniziava a farsi sentire e pensavo di non farcela.
Cosa si prova quando finalmente si intravedono da lontano le guglie della cattedrale di Santiago?
Una grande soddisfazione, ma anche sentimenti contrastanti. Solo allora ti rendi conti dell’importanza del percorso che hai fatto e quasi ti mancano i sentieri che hai percorso.
La cosa più bella è assistere alla messa con il caratteristico “Botafumeiro” ossia l’enorme incensiere utilizzato per purificare l'aria della Cattedrale di Santiago quando è piena di pellegrini. Misura 160 centimetri e pesa 68 chili (100 chili quando è carico di carbone e incenso); sono necessari otto uomini per muoverlo e lanciato lungo la navata centrale raggiunge addirittura una velocità di 68 km orari.
Io personalmente ho pensato a mio padre e alla promessa che avevo fatto. Quando sono entrato in chiesa e ho abbracciato la statua di San Giacomo, come tradizione vuole, mi sono profondamente emozionato, come non mi succedeva da tanto tempo.
Alla fine, in sostanza, come ti ha cambiato questa esperienza?
Posso dire che mi ha cambiato profondamente; mi ha reso più forte e mi ha fatto capire che tutte le difficoltà della vita si posso superare, basta volerlo senza demordere.
Il cammino ti rende sicuramente più forte e ti mette al riparo dalle paure; ora ho una fede rigenerata.
Un concetto fondamentale resterà vivo in me: ho capito veramente cosa significa l’umiltà. Alla fine del cammino si arriva solo se hai l’umiltà di fare un passo dietro l’altro in maniera costante, con fatica ma consapevolmente.
“Ultreia” dice con voce pronta l’amico pellegrino; “et suseia” risponde prontamente l’altro viandante che s’incontra sul cammino; significa “più in alto” e “oltre” c’è Santiago, il cammino e la vita.
“Attraverso l’amore di Cristo volgiamo al tempo stesso i nostri cuori verso i nostri fratelli che sono intimamente a noi legati e per i quali Egli dette se stesso in sacrificio”. La frase appena citata è stata estratta da un tema scolastico titolato “L’unione dei fedeli con Cristo”; l’autore non era un seminarista, non era un chierichetto e neanche un predicatore provetto o improvvisato. A proferire queste parole è stato Karl Marx in uno dei suoi primi scritti giovanili.
Il principale esponente del movimento comunista può essere considerato una figura certamente poliedrica e centrale nel XIX secolo: filosofo, economista, storico, sociologo e giornalista. Il teorico per eccellenza della concezione materialistica della storia e del socialismo scientifico.
La vita di Marx non è stata certamente facile né idilliaca. È curioso, per esempio, notare l’infinita serie di lutti che ha colpito la sua famiglia: il suicido di due figlie e di un genero; tre figli sono morti di malnutrizione. Anche la figlia Laura ha visto morire tre dei suoi figli. La stessa Laura e suo marito hanno tentato di uccidersi insieme. Un’altra figlia, Eleonora, ha tentato di fare lo stesso con suo marito. Solo nefaste coincidenze?
L’altra mano di Marx
Nelle pieghe della storia ufficiale ci sono alcuni aspetti poco approfonditi e per alcuni versi poco noti della vita e della personalità dell’ideatore massimo dell’ideologia comunista.
Una stranezza salta subito agli occhi proprio osservando uno dei più famosi ritratti di Marx; il filosofo è ripreso con la mano nascosta nella giacca; questo gesto sembra naturale e quasi casuale, ma non è propriamente così.
In realtà tale gesto è molto comune soprattutto osservando i ritratti di persone autorevoli e di un certo rango. Basti pensare, per esempio, ai ritratti di Napoleone. La "mano nascosta" è un simbolo ricorrente nei rituali del grado massonico "Royal Arch" e coloro che lo utilizzano se ne servono per comunicare la loro appartenenza agli altri iniziati e ai fratelli massoni.
In verità l’appartenenza alle file massoniche non è poi un fatto tanto eccezionale quando si parla di personalità del calibro di Karl Marx. Nel caso di specie, però, si tratta solo di questo?
L’altra faccia di Marx
A quanto pare no. Esiste uno studio organico e ben documentato che ha analizzato alcuni punti “oscuri” della vita del filosofo tedesco. Si tratta del libro, attualmente di difficile reperibilità, dal titolo “L'altra faccia di Carlo Marx” del pastore evangelico Richard Wurmbrand (1909-2001).
Wurmbrand ha messo in evidenza le probabili connessioni fra il marxismo e il satanismo, raccogliendo minuziosamente prove e indizi, ma soprattutto indagando in profondità nella vita privata di Marx.
È sorprendente notare l’evidente corrispondenza, quasi perfetta e naturale, degli elementi strutturali del mondo esoterico vicino al satanismo con i principali ideali che hanno mosso da sempre non solo Marx ma addirittura anche i più importanti fondatori dell'ideologia comunista; una traccia inesplorata e che, nel corso degli anni, è stata forse volutamente nascosta soprattutto dagli accoliti più vicini al filosofo tedesco.
Racconta Wurmbrand in un passo significato del suo libello: “Marx era un nemico dichiarato di tutti gli dèi, un uomo che aveva acquistato la sua spada dal principe delle tenebre, al prezzo della propria anima. Aveva dichiarato che il proprio scopo era l'attirare tutta l'umanità nell'abisso, e seguirla ridendo. Sua figlia Eleanor dice che, quando erano bambine, Marx aveva raccontato molte storie a lei e alle sue sorelle. Quella che le piaceva di più parlava di un certo Hans Röckle. Il racconto di quella storia durava mesi e mesi, perché era una storia lunga, lunga, e non finiva mai: Hans Röckle era una strega che aveva un negozio con giocattoli e molti debiti. Benché fosse una strega, era sempre in ristrettezze finanziarie. Perciò doveva vendere, contrariamente alla propria volontà, tutte le sue cose belle, l'una dopo l'altra, al diavolo; alcune di queste avventure erano orribili e ci facevano rizzare i capelli”. Un racconto non proprio adatto per una bambina.
L’altra giovinezza di Marx
Il nome completo di Marx era Moses Kiessel Mordechai Levi; sin dai primi anni della sua adolescenza si è professato cristiano, sebbene la sua famiglia avesse origini ebree. Infatti, suo padre Hirshel ha-Levi Mordechai, era discendente di una famiglia di rabbini; di tale estrazione ha conservato un chiaro retaggio culturale, sviluppando alcuni tratti intellettuali tipici degli studi talmudisti, ossia propri del testo sacro complementare più importante dell’Ebraismo. È singolare notare che Mardocheo è stato il figlio di Iair della tribù di Beniamino, una delle due tribù che costituirono il regno di Giuda prima della sua distruzione da parte dei babilonesi. L'origine del nome Mardocheo è incerta. Sembra che in aramaico significhi "servitore di Marduk", ossia del dio creatore della mitologia babilonese. Mardocheo è stato anche il primo personaggio della Bibbia al quale è stato riconosciuto il nome di "Yehoudi" che si traduce con il termine “giudeo”.
Poco dopo il diploma, nella vita di Marx è accaduto un mutamento radicale molto probabilmente dovuto a una grave malattia che l'avrebbe colpito, portandolo sull'orlo della morte. Come spesso accade dopo una grave malattia c’è un avvicinamento al divino; per Marx, invece, stranamente è successo esattamente il contrario. Da quel momento è diventato profondamente e appassionatamente anti-religioso. Proprio in quell'oscuro periodo della sua vita ha incominciato a scrivere alcuni poemi di chiara impronta esoterica e a tratti molto vicini alle tematiche del satanismo. Tra questi spicca, senza dubbio, l’opera “Oulanem”.
L’altro lato artistico
A proposito di quest’opera ha spiegato sempre Wurmrand “è necessario cogliere la rivelazione che lo stesso Marx fa nel poema - Il giocatore - segno chiaro della sua affiliazione a una setta satanico-luciferina: «Sorgono i vapori infernali e mi riempiono il cervello sin che impazzisco e mi si cambia il cuore. Vedi tu questa spada? Me l'ha venduta il principe delle tenebre. Per me batte l'ore e dà i segni. Sempre più audacemente suono la danza della morte». Il riferimento è alla spada incantata, strumento rituale che viene offerto all'adepto nel momento del giuramento di fedeltà a Satana, fatto con il suo sangue. La spada diviene immagine speculare della perdita dell'anima. Della dannazione eterna. «Ho però nelle mie giovani braccia – scrive Marx in un altro emblematico passaggio dell'opera - di che stringervi e schiacciarvi con la forza d'una tempesta, mentre per entrambi l'abisso si disserra nel buio. Sprofonderai, ed io ti seguirò ridendo, Sussurrandoti all'orecchio, Discendi,Vieni con me, amico!» (Karl Marx, Oulanem, Atto 1, scena 2, pag. 63).
Oulanem è in fondo un'ode alla morte e alla perdizione eterna. Un inno all'anticristo. È importante notare che il termine “Oulanem” sia l'inversione e il camuffamento del nome biblico di Gesù “Emmauele” che in ebraico significa “Dio con noi”. Per i satanisti invertire i nomi sacri o le lettere degli stessi ha una forte valenza simbolica di negazione del principio semantico sacro. Simili inversioni di nomi, in particolare, sono caratteristici della magia nera. Secondo l'autore, inoltre, Oulanem è una composizione particolare: tutti i personaggi sono consapevoli della loro corruzione, non solo, ma la ostentano e la celebrano con convinzione.
L’altro Marx esoterico
Quando Marx ha scritto l’opera “Oulanem” era ancora lontano dall’elaborazione delle teorie del socialismo. Addirittura le contrastava. Negli anni successivi, invece, l’avvicinamento alle tematiche esoteriche si è coniugato e fuso in maniera indistinta con la maturazione degli ideali politici.
Il Manifesto Comunista, infatti, scritto nel 1848 altro non è stato che la copia rivista e corretta del celeberrimo piano degli "Illuminati di Baviera" in funzione anticattolica; i punti più importanti del programma sono stati concepiti durante il periodo di affiliazione e militanza dello stesso Marx all'interno della “Lega degli Uomini Giusti”, di diretta emanazione proprio dall’Ordine degli Illuminati di Baviera.
Marx, infatti, sarebbe stato iniziato nella “Loggia Apollo” di Colonia proprio nel periodo della stesura del Manifesto Comunista, ma avrebbe militato anche nella "Lega degli Uomini Giusti", precedentemente denominata "dei Proscritti" e poi "dei Comunisti".
Gli illuminati inglesi avrebbero affidato a Marx ed Engels il compito di rielaborare i principi fondanti della setta in una forma nuova e pseudo-scientifica, mentre i finanziamenti necessari per la pubblicazione del Manifesto sarebbero stati erogati da Clinton Roosevelt e Horace Greely, entrambi membri della “Loggia Columbia” fondata a New York dagli stessi Illuminati di Baviera.
Per Marx, affinché le masse potessero conseguire la felicità, occorreva qualcosa di più che la semplice distruzione del capitalismo: occorreva “l'abolizione della religione, (l'oppio dei popoli) intesa come illusoria felicità dell'uomo”. È proprio su questi concetti di sovrapposizione degli elementi di antagonismo al capitalismo e affermazione dell’ateismo che si insinua l’altra faccia esoterica del pensiero marxista.
Una conferma diretta di questo è arrivata analizzando un altro poema: “Così ho perduto il cielo, Lo so ben io. La mia anima, un tempo fedele a Dio, È destinata all’inferno.” (Marx, La fanciulla pallida). Sembra chiaro l’intento di voler seguire lo stesso obiettivo del diavolo: consegnare alla dannazione l’intera razza umana.
Ancora più inquietante sembrerebbe un’epistola della moglie: “La tua ultima lettera pastorale, o gran sacerdote e vescovo di anime, ha di nuovo dato un tranquillo riposo alla tua povera pecorella”. La lettera è datata 31 marzo 1854. Sua moglie parlava di lui come di un gran sacerdote e vescovo. Di quale religione? Forse il riferimento era all’appartenenza a una setta? Eppure in questo periodo della sua vita aveva già abbracciato in maniera convinta gli ideali comunisti e l’ateismo.
La possibile connessione con il satanismo sembra essere confermata indirettamente anche da Mikhail Bakùnin, amico dello stesso Marx ed esponente anarchico della Prima Internazionale: “Il maligno rappresenta la ribellione satanica contro l'autorità divina, ribellione nella quale vediamo il germe fecondo di tutte le emancipazioni umane, la Rivoluzione. Satana è l'eterno ribelle, il primo libero pensatore ed emancipatore dei mondi. Egli fa sì che l'uomo si vergogni della sua bestiale ignoranza e obbedienza; lo emancipa, imprime sulla sua fronte il suggello della libertà e dell'umanità, spronandolo a disobbedire e a mangiare il frutto della conoscenza”. Egli scriveva ancora: “In questa rivoluzione dovremo risvegliare il Diavolo nelle persone, dovremo attizzare in loro le più basse passioni. La nostra missione è distruggere, non edificare. La passione per la distruzione è una passione creativa”.
C’è poi, infine, un altro elemento non trascurabile: la particolare barba di Marx e la sua lunga chioma; caratteristiche peculiari tipiche dei discepoli di Joanna Southcott, una sacerdotessa dedita al satanismo che si considerava in contatto diretto col demone Shiloh.
L’altra storia ancora da scrivere
Da questi elementi emerge certamente un quadro complessivo poco noto del comunismo delle origini e dei suoi protagonisti: l’odore acre del fumo di satana resta in sospensione sotto la patina evanescente di un quadro composito che richiama le lotte degli operari e dei più deboli contro lo sfruttamento del capitale; una facciata dietro alla quale molto probabilmente si nascondeva ben altro. Una contraddizione apparente e poco dibattuta se si pensa che parecchi scritti di Marx sono attualmente ancora gelosamente custoditi presso l’Istituto Lenin di Mosca. Tali manoscritti potrebbero rivelarsi fondamentali per avere una comprensione completa dei veri scopi del movimento comunista europeo.
Risulta quanto meno singolare dover registrare la simpatia di Marx per ambienti e temi vicini al satanismo in virtù della sua forte avversione religiosa e alla propria vicinanza all’ateismo. Appare ancora più singolare constatare che nel suo studio privato campeggiava un busto mitologico di Zeus che nella tradizione greca rappresentava un crudele dio che si trasformava in animale e teneva prigioniera l’intera Europa. Un preoccupante vaticinio se si considera che la figura di Zeus, nota per la sua ferocia, è anche l’unico emblema che si ritrova nell‘atrio principale della sede delle Nazioni Uniti di New York.
Forse, per iniziare una ricerca approfondita in tale direzione, bisognerebbe partire dalla fine e constatare che Marx è stato sepolto nel cimitero londinese di Highgate il quale è, notoriamente, il principale centro del satanismo britannico.