Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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«All'interno c'era un vecchio, alto, sbarbato ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi: neppure una nota di colore in tutta la sua persona». Questa descrizione lapidaria, questo aggettivo probabilmente non è usato a caso, la ritroviamo in uno dei romanzi gotico-horror forse tra i più famosi: stiamo parlando di Dracula. Il romanzo epistolare, scritto dall'irlandese Bram Stoker nel 1897, è ispirato alla figura di Vlad III, principe di Valacchia. In realtà questo personaggio è realmente esistito ed è nato nel 1431; è stato un nobile, militare e politico rumeno di rilievo ma secondo la leggenda resta un personaggio immortale non solo per la sua fama ma anche per la sua particolare condizione di vampiro.
La vicenda narrata nel romanzo, infatti, inizia il 3 maggio 1890, diversi secoli dopo la nascita storica di Vlad. Il giovane avvocato Jonathan Harker è inviato in Transilvania dal suo capo Peter Hawkins per occuparsi dell'acquisto di un'abitazione a Londra fatto da un nobile rumeno, il Conte Dracula. L'inizio del viaggio del giovane è però all'insegna del contatto con il mondo superstizioso e pauroso della gente locale che cerca di scoraggiarlo dall'intento di incontrare il Conte che tuttavia si rivela essere un distinto nobiluomo che ha deciso di trasferirsi in Inghilterra. Con il passare dei giorni alcuni particolari diventano terrificanti, fino alla scoperta dell'oscuro segreto del Conte: egli è in realtà una creatura che si nutre del sangue dei viventi.
Fin qui la finzione narrativa, ma cosa c’è di vero e di storico in tutta questa vicenda e soprattutto in merito al suo protagonista? Ne parliamo con lo studioso Raffaele Glinni che da anni si dedica alla ricerca storica in merito a questa strana storia.
Iniziamo parlando brevemente di Bram Stoker; come tutta questa storia, così affascinante, può essere calata nel contesto del Sud Italia?
Normalmente collochiamo Bram Stoker nel mondo anglo-irlandese e la storia di Vlad Dracula in Romania. In realtà Bram Stoker non ha mai visitato la Transilvania. La storia di Vlad Dracula potrebbe incrociare Stoker non in Romania ma curiosamente proprio nel Sud Italia. Infatti, occorre evidenziare che la famiglia Stoker (il padre Abram, la moglie e le sorelle) si era trasferita a Napoli dove il padre lavorava per vari nobili anglo-irlandesi. Stoker aveva raggiunto Napoli con una nave e qui avrebbe conosciuto un misterioso frate domenicano che divenne uno dei suoi amici più fidati e lo accompagnò in giro per la città. Dagli appunti di viaggio si deduce che sicuramente ha visitato accuratamente il centro storico della città partenopea e ha effettuato un viaggio in treno sulla tratta Napoli – Foggia – Melfi, quindi a cavallo tra Campania, Puglie e Basilicata.
Passiamo, invece, alla figura di Dracula. Storicamente, dunque, in che modo probabilmente Vlad è collegato al Regno di Napoli nel XV secolo?
Dracula, Principe di Valacchia e voivoda (ossia principe) di Transilvania, è stato un eroe nella difesa del suo regno contro i Turchi ed ha ricevuto il titolo di crociato da parte del Papa; è stato implacabile contro i suoi nemici tra i quali alcune famiglie di Sassoni - Boiardi di Transilvania che seppellirono vivo suo fratello e uccisero il padre così da scatenare la violenta vendetta dello stesso Vlad. Il suo legame familiare con il Sud Italia è rintracciabile per il tramite del Re d’Ungheria, Mattia Corvino, poiché aveva sposato una stretta congiunta e la famiglia di Dracula soggiornava presso la corte del re proprio a Budapest. A sua volta Mattia Corvino sposò nel 1475 la figlia del Re di Napoli, Beatrice D’Aragona, il cui segretario era il Duca Alfonso Ferrillo, Signore di Acerenza in provincia di Potenza. A celebrare il matrimonio per procura a Napoli fu delegato un misterioso voivoda di Transilvania.
Dracula trascorse ben 12 anni presso la corte del Corvino ed ebbe sicuramente contatti con la corte Aragonese nel 1475 e quindi con i Ferrillo.
Da evidenziare che i D’Aragona, i Corvino e i Dracula erano tutti membri dell’Ordine del Dragone, ossia un cenacolo iniziatico basato però anche dal punto di vista politico su un patto militare di mutuo soccorso e assistenza contro i Turchi.
Stante l’unione dei regni e il patto del Drago, la figlia di Dracula, nipote del re Corvino, fu destinata in sposa al conte Matteo Ferrillo di Acerenza, come detto, figlio del segretario della D’Aragona; ecco che entra in scena la figlia Maria Balsha/Walsha (cognome che deriverebbe da Walsha ossia Valacchia).
Parliamo a questo punto brevemente dell’Ordine del Drago.
L'Ordine del Drago (o del Dragone) definito anche Societas Draconistrarum è stato un ordine militare del Sacro Romano Impero Germanico, istituito dall'imperatore Sigismondo per distruggere l'eresia hussita e contenere il potere dell'impero ottomano. Ne furono membri oltre a Vlad Tepes Dracula anche il celebre condottiero Albanese Giorgio Castriota Skanderbeg, (amico del padre di Dracula) insieme a ventisei membri di altissimo lignaggio quali per esempio re Alfonso V d'Aragona e suo figlio Ferrante, il principe Vitovd di Lituania, il duca Ernesto d' Austria, Cristoforo III duca di Baviera e i re di Danimarca, Svezia e Norvegia.
A questo punto la storia si sposta ancora più a sud e in particolare nel borgo di Acerenza. Quali sono i fatti storici a cui bisogna far riferimento?
Mattia Ferrillo era Signore di Acerenza, piccolo borgo in provincia di Potenza nell’entroterra lucano e le cronache storiche riportano che tutti i notabili del paese furono invitati al matrimonio tra Corvino e D’Aragona nel 1475.
La figlia di Dracula, nipote di Mattia Corvino e della D’Aragona, si trasferì all’età di circa sei anni, nel 1479/80 a Napoli e passò sotto la tutela di Isabella Del Balzo D’Aragona (moglie di Re Ferrante).
La principessa Maria, sposata al Ferrillo, fu di casa ad Acerenza, all’epoca chiamata Acheruntia e si impegnò con una ingente spesa (24.000 ducati) nella riparazione della locale cattedrale danneggiata da un terremoto presumibilmente nel 1456.
Acerenza è un piccolo centro, ma sembra centrale in questa vicenda; ha una splendida cattedrale che potrebbe custodire numerosi segni di questa storia. Quali sono?
La principessa e contessa Maria Balsha fece realizzare nella cripta della cattedrale di Acerenza un ciclo pittorico celebrativo della sua vita con espliciti riferimenti alle vicende del padre Vlad, di Mattia Corvino e dell’Ordine del Dragone. Negli affreschi furono utilizzati i colori ufficiali proprio dell’ordine del Drago.
Maria appare sul frontespizio con il marito e di fronte alla raffigurazione di un signore, sicuramente il padre di lei, raffigurato con il naso distorto e tagliato il che in Romania è simbolo di persona scomunicata. Palese, al di là di ogni dubbio, l’identificazione in quanto sovrapponibile con la testa del Drago che appare sulla stessa parete e che nel dipinto viene schiacciato da santa Margherita, patrona d’Ungheria, il tutto in una scena ambientata in una galera; questo corrisponderebbe con l’episodio della vita di Dracula riguardante la sua breve prigionia per ordine del re D’Ungheria nelle secrete di Mediash.
Nella stessa cattedrale alcuni rilievi e statue sono chiari riferimenti a mostri, vampiri e lupi mannari.
A ulteriore conferma di queste ipotesi a Napoli, in altri possedimenti della stessa Balsha, è stata poi realizzata una tomba monumentale per un membro militare importantissimo dell’Ordine del Dragone, visto l’esplicito simbolo ivi presente, ossia un grande Drago. Accanto alla lastra tombale appare una eccezionale scritta in codice segreto; secondo molti studiosi si tratterebbe di un codice miliare dove sarebbe leggibile la scritta Vlad di Valacchia. La scritta è stata oggetto di analisi scientifiche che ne hanno certificato la storicità coeva alla stessa tomba.
Parliamo nello specifico dell’affresco conosciuto come “La dodicesima notte dei Re Magi” presente nella cripta della cattedrale di Acerenza.
Nell’affresco della cripta detto della “Dodicesima notte dei Re Magi“ vi è un esplicito riferimento alla stella cometa che è il simbolo dei Dracula in quanto lo stesso assunse il regno nel 1456 in occasione del passaggio della cometa di Halley, simbolo usato anche sul gioiello di famiglia.
Nell’affresco Dracula appare invecchiato ed è inginocchiato, penitente ai piedi della figlia insieme ad altre due figure: il Re Corvino, identificato dall’elsa della spada e dalla corona, e presumibilmente il Re di Napoli. Dracula è raffigurato con il mantello e il celebre cappello con le perle che lo ritroviamo per terra. Davanti a lui il celebre vaso d’oro legato, oggetto di molti racconti dove si parla di lui; proprio sul vaso è ben visibile il blasone utilizzato dagli stessi nei loro carteggi: un sole dentro una mezzaluna il che non lascia dubbio sull’identificazione dei personaggi.
Nell’affresco il celebre gioiello, una stella con un rubino al centro che compare sul copricapo di Dracula, simbolo della famiglia, lo ritroviamo al collo di Maria Balsha, rappresentata con le sembianze della Madonna.
Quali sono gli altri elementi importanti che possiamo rintracciare nel libro di Bram Stoker?
Spesso la trama nascosta è più forte di quella manifesta come diceva Eraclito.
Stoker non chiarì mai dove avesse avuto l’ispirazione; dichiarò solo vagamente che l’idea gli venne dopo una cena a base di granchio e relativa notte insonne. Stoker potrebbe aver visitato la tomba napoletana a cui abbiamo fatto riferimento e in quella occasione avrebbe visto il grande Drago e altri simboli egiziani; nella visita probabilmente fu accompagnato dal suo amico frate appartenente all’ordine dei Domenicani che gli avrebbe fatto visitare questi luoghi.
Stoker, inoltre, era membro dell'organizzazione ermetica Golden Dawn e ben conosceva i simboli: per esempio quello delle tre stelle di Orione, presente sul blasone iscritto nella tomba napoletana è il geroglifico che indica “colui che non muore”; questo è sicuramente un riferimento molto forte alla vicenda di Dracula.
Molto interessante, poi, è la questione dei nomi, dei simboli e i richiami ai luoghi utilizzati nel libro. Per esempio è menzionata specificatamente proprio la località di Acerenza ossia Acheruntia; infatti Renfield (l’uomo che simbolicamente aspira all’immortalità) nel raccontare dove avesse incontrato Dracula menziona specificatamente Acheruntia; questo nome è molto simile alla farfalla Acherontia Atropos, tipica farfalla con la raffigurazione della testa di morto; possiamo a tal proposito verificare e comparare la lastra tombale di Napoli dove compaiono due sfingi, con al centro una testa di morto, il tutto a forma di farfalla.
Nel libro si sono poi due personaggi femminili ossia Mina Murray e Lucy Westenra; unendo i nomi, Lucy e Mina, esce fuori il riferimento latino “lux mina“ ossia luce o stella del mattino, termine usato dai templari per indicare taluni santuari dedicati alla Madonna del Mattino, ma anche in riferimento alla stella del mattino (pianeta Venere). Con tale termine si poteva poi indicare ovviamente anche la stessa Lucania (la cui etimologia significa “luce nuova” quindi proprio luce del mattino).
Mina Murray potrebbe anche far riferimento alla translazione del nome Maria Di Muro ossia esattamente il nome di Maria di Balsa in riferimento alla contessa di Muro e presunta figlia di Dracula.
Nel libro, infine, compare l’abbazia in rovina di Carfax, il tutto trova perfetta corrispondenza con la storia narrata nei dipinti della Cattedrale di Acerenza, in quanto la figlia di Dracula comprò effettivamente la cattedrale distrutta dal terremoto; il nome Acerenza, inoltre, significa sasso-rupe di Cher ossia “saxa Acheruntia“ che sembrerebbe addirittura identico al nome celtico di Carfax (sasso di Cher).
In definitiva, dunque, una strana storia: un filo diretto dalla Transilvania al Regno di Napoli e in particolare alla Lucania.
«Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Il passo evangelico di Matteo, appena enunciato, ha un valore intrinseco non solo di carattere religioso; questo, infatti, è citato all’interno del romanzo La Cerca del Santo Graal, uno dei testi della saga cavalleresca diffusi a partire dal XII e attribuito al misterioso maestro Gautier Map.
In questo testo Galaad, figlio di Lancillotto, è destinato a porre fine agli eventi sinistri che da tempo immemore affliggono il regno di Logres, ormai definito Terra Guasta. Insieme a centocinquanta cavalieri della Tavola Rotonda, parte alla ricerca del Graal, simbolo della grazia divina e unica speranza di salvezza. Come annunciato dalle profezie, solo due di loro, oltre a Galaad, riusciranno nell’impresa. Dopo lunghe e pericolose avventure, i tre compagni giungono in Oriente nella città di Sarraz, riflesso della Gerusalemme Celeste; un viaggio che simboleggia il ritorno verso la Terra Santa, alle origini del cristianesimo.
La Cerca è un romanzo allegorico, fonte inesauribile di rimandi alle Sacre Scritture e alla mistica cistercense; un “vangelo della cavalleria” scritto per istruire, tramite l’espediente narrativo, la classe dominante del XIII secolo.
Il testo è stato recentemente riportato e tradotto nel libro La Cerca del Santo Graal edito da Rossini Editore a cura di Paolo Spaggiari, laureato in civiltà e lingue straniere moderne, francesista e traduttore di vari testi in lingua d'oïl.
Per iniziare parliamo del panorama letterario riguardante il Graal; quali sono le opere principali?
Il Graal è un elemento celtico trapiantato nell’epica cristiana: il magico calderone dell'abbondanza, presente nel folklore gallese e irlandese, che si trasforma in “cosa santa” nel Perceval di Chrétien de Troyes (1182 c.). In seguito, all’inizio del Duecento, questo motivo letterario viene sviluppato da Robert de Boron che, con il Joseph d’Arimathie, crea la fortunata associazione tra il Graal e il calice usato da Cristo durante l’Ultima Cena. Il Perlesvaus e il ciclo Lancelot-Graal (di cui fa parte anche La Queste del Saint Graal) conservano i nuovi elementi; mentre il Parzival di Eschenbach vede nel Graal una pietra purissima per mezzo della quale la fenice brucia e risorge dalle ceneri.
Perché è importante il romanzo La cerca del Santo Graal?
Credo che sia un’opera ancora poco conosciuta; tutti in qualche modo abbiamo un’idea di cosa sia il Graal, fa parte del nostro immaginario collettivo, ma pochissimi hanno letto quel testo fondamentale della cultura occidentale che è La Cerca del Santo Graal. Esso non è soltanto uno splendido romanzo d’avventura popolato da guerrieri, epiche imprese, demoni e saggi eremiti; oltre il velo letterario, il testo ci offre una sintesi della morale e delle spinte ideologico-spirituali che animavano la società del Duecento. Nella Queste la cristianizzazione del Graal raggiunge il suo apogeo; l’anonimo autore ci lascia un manifesto della cavalleria sacra, costellato dall’esaltazione del rituale eucaristico e da un sottofondo crociato e antiereticale figlio del suo tempo.
Perché l'opera viene definita “vangelo della cavalleria”?
Chi scrive la Cerca lo fa con un chiaro intento: istruire, per mezzo di un romanzo allegorico, la classe dominante del XIII secolo. I monaci sono chiamati a rinnovare la società cristiana, e per farlo individuano nella cavalleria la chiave di questa rivoluzione. Il cavaliere deve liberarsi dalla tracotanza – caratteristica della cavalleria secolare – e farsi umile, divenire servo di Dio per combattere la buona battaglia; deve trasformarsi in miles Christi. Nell’opera, eremiti, preti e monache, istruiscono i cavalieri – chiarendo i loro dubbi – e li aiutano a diventare migliori; ovvero, a diventare cavalieri celesti. L’interpretazione dei misteri legati al Graal e il continuo rimando alle Sacre Scritture danno modo all’autore – probabilmente un cistercense – di veicolare il proprio messaggio al lettore.
Cos’è secondo Lei il Graal? Può avere un collegamento con lo Spirito Santo?
Il Graal rappresenta Dio, la Sua grazia, i Suoi misteri; mentre la Cerca simboleggia il percorso spirituale che l’uomo compie per sanare la frattura con il Padre. Perduti nella Guasta Foresta dell'esistenza ci mettiamo in viaggio nella speranza di ritrovare la “via di casa”. Certamente un collegamento con lo Spirito Santo è possibile notarlo non solo nei parallelismi che il testo ci offre con la Pentecoste, ma anche nella continua presenza di Dio, che attraversa tutto il romanzo per mezzo delle sue ierofanie, le manifestazioni del sacro legate al Santo Graal.
Sappiamo che questo filone letterario è pregno di simbologie. Quali sono quelle più importanti in questo testo?
Credo che il simbolismo più influente nell’opera sia quello legato all’Eucaristia e in particolare al dogma della presenza reale. Oltre agli elementi accomunati al rituale eucaristico, primo fra tutti il Graal – associato al calice usato per officiare la messa –, nel testo troviamo una singolare e potente drammatizzazione della transustanziazione: l’ostia sollevata dal celebrante si fa carne e dal vaso liturgico sorge Cristo sanguinante; il Salvatore in persona si avvicina ai fedeli e li comunica con il Corpus Domini; Egli, infatti, è al tempo stesso sacerdote e sacrificio.
Molto affascinanti sono i nomi legati ai personaggi: Vero Cavaliere, Re Ferito, Re Pescatore; cosa rappresentano queste figure?
Il Vero Cavaliere – Galaad – è la personificazione del modello che l’autore si prefigge per la nuova cavalleria; il cavaliere perfetto, colui che non combatte per vanagloria, ma per la fede e la giustizia, per il Regno di Dio. Il Re Pescatore fa la sua comparsa nel Perceval di Chrétien de Troyes e, da lì in poi, assumerà il significato di custode del Graal. Questa figura è strettamente connessa a quella del Re Ferito – spesso infatti i personaggi coincidono – e si collega a un motivo ricorrente nel ciclo arturiano, quello del Colpo Doloroso: un colpo di spada o di lancia ferisce il re e la sua terra smette di dare frutto; solo l’eroe – nel nostro caso Galaad – potrà salvarlo e con esso salvare la Terra Guasta.
Nel romanzo si parla anche del peccato originale aggiungendo però dei particolari molto importanti. Cosa pensa a riguardo?
Il peccato originale è un tema complesso sul quale spesso si crea confusione. Quello che condividiamo con la caduta dei nostri progenitori non è la colpa, ma la condizione che ne deriva, ovvero l'allontanamento da Dio. Tuttavia, non dobbiamo rassegnarci alla disperazione, il Padre ci offre la possibilità di ritornare a Lui, il Suo desiderio è quello di riaverci. Citando il romanzo, la voce divina dice ad Adamo ed Eva una volta cacciati dall'Eden: «Gente di poca fede, perché vi giudicate morti? Non date nulla per perduto, poiché vi è più vita che morte». La Cerca, in questo passaggio, attinge liberamente ai primi capitoli di Genesi e alla Leggenda della Vera Croce: Eva porta con sé dal Paradiso un rametto da cui crescerà l'Albero della Vita; esso rappresenta in maniera allegorica la croce di Cristo, che con il Suo sacrificio ci ha donato la Salvezza.
Una parte molto importante della storia riguarda il leggendario Seggio Periglioso della famosa Tavola Rotonda.
La Tavola Rotonda – come ci illustra Merlino – con la sua forma rappresenta l'universo, la terra, il cielo, le stelle; potremmo dire che è lo spazio in cui viviamo, il nostro mondo. Per i cavalieri è un luogo di incontro tra pari, dove ognuno gioisce della compagnia dei fratelli d’arme. Essa, però, simboleggia anche la tavola di Cristo, per questo ha un seggio speciale riservato a colui che è guida e maestro dei cavalieri-apostoli: il Seggio Periglioso; nessuno può sedersi su di esso impunemente, chiunque osa occuparlo senza diritto incorre in pericoli mortali.
Qual è, secondo Lei, alla fine il messaggio simbolico di questo testo?
Tutti noi siamo chiamati a partire – lasciando ogni cosa: le nostre paure, le nostre passioni – e incamminarci come pellegrini alla ricerca di Cristo. Il mondo ha bisogno di cambiare, da sempre; la società ha bisogno di evolvere. L'anonimo autore della Queste crede nella necessità di una nuova era – prefigurata da Gioacchino da Fiore – in cui l'uomo raggiungerà la perfezione cristiana e il Regno di Dio sarà realizzato come in cielo, così in terra. La Cerca è un viaggio da compiere in primis dentro di noi, per ritrovare il legame con il divino; e poi, fuori da noi per lottare contro il Male e portare la Luce nel mondo. Non ci sono tesori da disseppellire, terre lontane da esplorare, reliquie da recuperare; il Graal non è un oggetto né un segreto occulto, ma il riflesso di Dio.
Potenza è un capoluogo di provincia in una regione, come la Basilicata, del profondo sud. Profondo come il mistero che avvolge ancora uno dei fatti di cronaca che ha tenuto banco nell’Italia degli anni ’90. C’è un prima e un dopo che segna distintamente la storia di questa città; quella linea di demarcazione ha una data: 12 settembre 1993 ossia quando misteriosamente scompare Elisa Claps una studentessa sedicenne. Poi c’è un dopo lungo oltre diciassette anni fatto di indagini, sospetti, insabbiamenti, mistificazioni che, comunque, non si concludono con il ritrovamento del cadavere nel sottotetto della chiesa della Trinità in pieno centro proprio a Potenza.
Ripercorriamo l’intera vicenda in occasione dell’uscita del libro dal titolo Elisa Claps: indagine nell’abisso della Chiesa della Trinità scritto a quattro mani da Fabio Amendolara e Fabrizio Di Vito che a 30 anni dall'omicidio con gli strumenti del giornalismo investigativo hanno analizzato e ricostruito ogni particolare del caso, consegnando al lettore tutte le drammatiche e clamorose scoperte.
Il caso Elisa Claps ha attraversato per decenni la cronaca nera italiana; ma prima di entrare nel merito sarebbe opportuno descrivere brevemente il quadro politico e sociale della città di Potenza negli anni della scomparsa.
1993: sono gli anni del controllo territoriale della Democrazia cristiana. Proprio nei giorni della scomparsa viene inaugurato lo stabilimento Fiat a Melfi e questo è un dettaglio che pesa non poco sulle prime indagini. Potenza, città di provincia dove si mormora su qualsiasi cosa accada, ha all’epoca una piccola questura con personale poco avvezzo a indagare su fatti di sangue.
Ricostruiamo l’intera vicenda cercando di mettere in evidenza i caratteri dei due protagonisti: Elisa Claps e Danilo Restivo.
I profili dei due protagonisti vengono tracciati in modo dettagliato da chi ha indagato: lei viene descritta come una ragazza modello, dedita alla famiglia, di personalità mite e accogliente, che prende a cuore chi viene emarginato. Lui come un soggetto con molte personalità, che se ne andava in giro per la città a tagliare i capelli alle ragazze, che faceva stalking alle sue vicine di casa e che da ragazzino aveva accoltellato al collo un coetaneo. Restivo già presentava, insomma, una serie di elementi che non potevano essere trascurati, come invece è accaduto per molti anni.
Arriviamo, dunque, a quel famoso giorno della sparizione; quali sono i punti oscuri secondo gli autori del libro?
Intanto dall’analisi degli atti della prima inchiesta è emersa subito la sciatteria con cui sono state condotte le indagini. Partiamo dalla dichiarazione di Danilo Restivo. Ai poliziotti conferma di aver incontrato Elisa quella domenica mattina, di essersi fermato con lei a parlare nella chiesa della Trinità (che è la parrocchia della borghesia potentina) e di averla vista uscire mentre lui si era fermato a pregare. Questa parte della sua dichiarazione viene ritenuta da chi indagava credibile, tanto che in chiesa non è stata disposta una perquisizione e neppure un semplice sopralluogo. La seconda parte della sua dichiarazione, invece, è questa: Restivo sostiene di essere entrato a curiosare nel cantiere delle scale mobile (che in quel periodo erano in costruzione), di essere ruzzolato da una scalinata e di essersi ritrovato con una scheggia metallica infilata tra il pollice e l’indice di una mano e, per questo motivo, è poi andato in ospedale a farsi medicare. Bene, questa seconda parte della sua dichiarazione, secondo gli investigatori dell’epoca, non era credibile, tanto che nel cantiere delle scale mobili è stata concentrata gran parte dell’attività investigativa: vengono effettuati rilievi scientifici, fotografie, video e perfino simulazioni della caduta per accertarne la dinamica. Ma non è finita: Restivo confessa subito di avere anche un movente e arriva a sostenere di essere innamorato di Elisa ma di essere stato rifiutato. Serviva qualcos’altro? Eppure per tantissimi anni è stato ritenuto solo un bugiardo e non un brutale assassino.
Veniamo alle indagini: quali sono essenzialmente gli aspetti che hanno caratterizzato l’intera vicenda giudiziaria?
Centinaia di sviste e di omissioni. L’inchiesta sull’omicidio di Elisa Claps è il manuale di ciò che non deve essere fatto in un’indagine giudiziaria. Reperti mai analizzati, dichiarazioni contraddittorie prese per buone, falsi testimoni dell’epoca che dopo il ritrovamento non sono stati risentiti. E perfino una stranissima prescrizione, che riguarda il genetista che non ha trovato il Dna sulla maglia che indossava Elisa il giorno dell’omicidio. Il Dna è stato poi trovato dai carabinieri del RIS e il genetista è finito sotto inchiesta. Bene, pur essendo stato rinviato a giudizio, il processo a suo carico si prescrive già in primo grado. Un avvocato che qualche tempo fa ha scritto una recensione del nostro libro ha sostenuto che sarebbe stato più semplice giustificare un’assoluzione che spiegare quella prescrizione.
Il fulcro della vicenda è il ritrovamento del corpo della ragazza. Nel libro riportate che «Non è facile entrare nell’abisso della chiesa della Trinità e solo chi conosce a fondo quella struttura sa come raggiungere il sottotetto». Perché questo sembra essere un aspetto importante?
Importante lo è sicuramente. Chiunque ha immaginato in questi anni un posto agevole dove in tanti sono entrati a fare di tutto si sbaglia. Poteva arrivarci solo chi conosceva bene l’ambiente. È vero che era un’alcova dove si consumavano rapporti sessuali (lo provano tracce di sperma su un materasso e un graffito sul muro in cui è stato scritto «sono stato qui con una bella ragazza alla faccia del prete»), ma questo prova proprio che era isolato e poco frequentato. Lì Restivo ha potuto agire indisturbato, così come ha avuto tutto il tempo chi l’ha aiutato successivamente a occultare il cadavere.
Alla luce della vostra accurata indagine giornalistica quali sono attualmente ancora i punti oscuri e poco chiari?
Questa storia è stata raccontata sotto ogni aspetto e dopo il ritrovamento ci si è concentrati solo sugli esponenti della Chiesa le cui dichiarazioni apparivano contraddittorie e il cui comportamento sembrava omissivo. Ci si è concentrati anche sulle due signore delle pulizie accusate di aver visto i resti di Elisa qualche settimana prima. Il sacerdote brasiliano don Wagno, inoltre, ha ammesso di aver visto il corpo di Elisa già tempo prima. Un segmento, però, non è stato mai esplorato ed è legato proprio a chi ha aiutato Restivo a occultare il cadavere e a farla franca per 17 anni. Il paradosso è questo: gli inquirenti si sono concentrati su chi ha fatto trovare i resti di Elisa e non su chi li ha nascosti. Incredibile.
La morte di Elisa è un composito puzzle fatto di tanti misteri; per esempio sotto il corpo è stato trovato uno strano bottone rosso presumibilmente tipico dell’abito cardinalizio…
In effetti in un primo momento si era pensato all’abito talare di don Mimì Sabia, che era il parroco della Trinità e che durante la sua testimonianza al processo di Restivo per false dichiarazioni al pubblico ministero aveva parzialmente mentito, ma un’indagine merceologica ha stabilito che si trattava di un bottone di colore rosso ponsò, tipico delle tonache cardinalizie. La coincidenza inquietante è che proprio nel 1993 l’unico cardinale in visita alla città di Potenza è Joseph Ratzinger, il futuro papa Benedetto. Non c’è però traccia di un suo ingresso nella chiesa della Trinità.
In quello che sembra un “semplice” fatto di cronaca in realtà sembrano coinvolti tantissimi soggetti anche istituzionali, come per esempio addirittura anche il SISDE? Come mai secondo voi così tanto interesse per la vicenda?
Il Sisde sembra essere inciampato nel caso Claps. C’è finito per caso. Mentre gli 007 si occupavano di criminalità organizzata una loro fonte ha svelato che Elisa era stata uccisa lo stesso giorno della scomparsa e che il suo corpo era stato occultato in un posto «isolato» ma «frequentato». A ripensarci oggi sembra l’identikit del sottotetto. Inoltre, il rapporto del Sisde è del 1997, ovvero quando ancora tutti ritenevano che Elisa fosse ancora viva (addirittura nel 2006 il questore di Potenza fa invecchiare la foto della vittima dalla polizia Scientifica, ritenendo che si trattasse ancora di una scomparsa).
Com’è cambiata, secondo voi, la città di Potenza alla luce di questa storia?
I potentini, dopo il ritrovamento in chiesa, hanno messo da parte la maglietta da tifosi che li divideva tra colpevolisti e innocentisti e hanno continuato a dividersi tra chi non vedeva l’ora della riapertura al culto della Trinità e chi vorrebbe abbatterla. Si manifesta davanti alla chiesa, dimenticando però che la stessa animazione bisognerebbe riservarla a tutte le istituzioni che, chiamate in causa, hanno impedito il ritrovamento dei resti di Elisa e non hanno ancora inchiodato chi ha aiutato Restivo.