Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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Arca di Sioи è un'opera in due volumi (edizioni Cerchio della Luna) che introduce alla scoperta dei segreti di Rennes-le-Château e della leggendaria dinastia merovingia. L’autrice propone nuove ipotesi di ricerca, attraverso la decifrazione del Serpent Rouge, enigmatico manoscritto esoterico, fino ad oggi mai completamente decodificato e correlato al misterioso Priorato di Sion. L’analisi di opere di grandi artisti e autori, dal Rinascimento all’arte e letteratura contemporanee, si unisce a una ricca documentazione fotografica, che testimonia i luoghi descritti nei libri, per un vero e proprio viaggio letterario nei territori della Cerca del Graal. Completa l’opera un’esclusiva intervista a Marco Rigamonti, Gran Maestro del Priorato di Sion Ordre de la Rose-Croix Veritas.
Ne parliamo con l’autrice Francesca Valentina Salcioli scrittrice, arte terapeuta e ricercatrice.
Il mistero di Rennes-le-Château: come è arrivata a occuparsi di questa intrigata vicenda?
Il mio interesse verso Rennes-le-Château nasce poco più di una ventina d’anni fa, con la prima lettura di The Holy Blood And The Holy Grail, di Baigent, Leigh e Lincoln. Posso dire che fu subito amore, per una mia naturale inclinazione alla mitologia, all’antropologia e un’innata passione per il ciclo arturiano e le leggende del Graal.
Parliamo prima di tutto del titolo del suo saggio. Cosa significa?
Il riferimento a Sion è in primis a Gerusalemme e al Monte Sion, che la Bibbia considera come la Casa del Signore, e specificatamente all’Abbazia di Notre-Dame du Mont Sion, che Goffredo di Buglione avrebbe fondato a Gerusalemme nel 1099. Un secondo riferimento è al meno noto colle di Sion, nei pressi della città francese di Annemasse, dove il Priorato di Sion fu fondato (o rifondato) negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il termine Arca è un riferimento sia all’Arca dell’Alleanza di Mosè, contenente le Tavole della Legge, sia a quella di Noè, che rappresenta un’alleanza di salvezza sulle acque. L’Arca dell’Alleanza è stata cercata proprio nei pressi di Rennes-le-Château, sul monte Bugarach, che per qualcuno deriverebbe da Bourg de l’Arche, “villaggio dell’Arca”. Il tema del Diluvio Universale è particolarmente correlato a Rennes-le-Château e ai Franchi che, secondo alcuni miti, sarebbero i discendenti diretti di Gomer, nipote di Noè, che avrebbe conservato e tramandato i semi della cultura antidiluviana. Nella nostra storia, l’altra fondamentale Arca di Salvezza è quella che avrebbe portato Maria Maddalena sulle coste francesi, secondo la Legenda Aurea: questa barca proveniente da Gerusalemme, vera Arca di Sion, potrebbe aver condotto in salvo, insieme all’Apostola degli Apostoli, anche il favoloso Graal.
Il termine Arca indica anche “sepolcro” e “scrigno”, in riferimento alle declinazioni più materiche dei tesori di Rennes-le-Château e dintorni, che comprendono miniere, sepolture e doti archeologiche millenarie. Richiama l’arcaico e gli arcani, sia in quanto segreti sia come Tarocchi, che giocano un ruolo fondamentale nella simbologia del Priorato di Sion. All’interno di questo, il consiglio dei tredici Rosacroce è riunito proprio nell’Arche. L’Arca si collega anche alla località di Arques, a pochi chilometri da Rennes-le-Château, dove fino agli anni Ottanta era visibile una tomba molto simile a quella dipinta da Poussin, nell’opera I Pastori d’Arcadia, con la celebre iscrizione ET IN ARCADIA EGO. Questa è motto del Priorato di Sion e la sua risoluzione e completamento avvicina ai segreti di Rennes-le-Château. L’Arca, insomma, è il principio e il fine.
Facciamo alcuni cenni a questa complicata vicenda: perché è così affascinante e misteriosa?
Credo che Rennes-le-Château sia un’inesauribile fonte di interesse e fascino perché è in grado di toccarci profondamente, alimentando la sacra curiosità sull’origine della nostra cultura, delle nostre credenze e infine su un possibile riscontro storico al ciclo arturiano, un cuore di verità all’interno della leggenda. L’abate Saunière, che scava nella chiesa sulle tracce del Graal e ritrova la cripta nascosta, è l’emblema perfetto del cercatore, che rimuove con pazienza, in primis in sé stesso, strati di polvere di quotidiana mediocrità, ritrovando il tesoro. Lo scavo esteriore è sempre uno scavo anche interiore: trovare spazi dentro di noi per nuove o rinnovate verità. Per qualcuno, Rennes-le-Château è la Cerca di Dio, per altri della Verità, storica o spirituale, che risponda ai molti interrogativi e anche contraddizioni della Storia del Cristianesimo, la Cerca del Graal e della Gnosi. In ogni caso, Rennes-le-Château ci parla e parla di noi.
Entriamo nel merito dei suoi studi. Parliamo della figura di Bérenger Saunière.
Saunière è personaggio centrale, nella storia e nella leggenda di Rennes-le-Château. Sappiamo che condusse una vita fuori dal comune poiché, da umile sacerdote di campagna, si trasformò velocemente in un ricco personaggio, dalle colte frequentazioni e gusti raffinati. Oltre alla ristrutturazione della chiesa dedicata a Santa Maria Maddalena, fece costruire Villa Bethania e la biblioteca della Torre Magdala, entrambe in onore della santa, identificabile come Maria di Bethania, del Castello di Magdalo, oppure come Maria Migdal, ovvero “turrita”, forse per la sua forte e altissima fede e importanza.
Secondo la leggenda, durante la ristrutturazione della chiesa, l’abate Saunière avrebbe ritrovato delle pergamene con messaggi criptati, all’interno di un capitello, nonché l’entrata della Cripta dei Signori di Rennes-le-Château. Anche se non possiamo avere certezza della storicità delle sue scoperte né dell’effettivo ritrovamento di un qualche tipo di tesoro (materico o sapienziale), certamente le tracce artistiche lasciate nella chiesa di Rennes-le-Château sono perlomeno curiose. Penso in particolar modo alla Via Crucis, disposta in senso antiorario e con dettagli molto particolari, ad esempio in merito alla deposizione. Penso alla celebre collocazione delle statue dei santi, le iniziali dei quali (Germana, Rocco, Antonio Abate, Antonio di Padova, Luca sul pulpito) creano la parola GRAAL, che si dispone a forma di M rovesciata, attorno alla statua di Maria Maddalena. Mi riferisco anche al meno noto bassorilievo sul confessionale, con il Buon Pastore che si rivolge alla Pecorella Smarrita, la quale ha, indubbiamente, un volto umano, se non proprio femminile.
Tra i molti dettagli, uno dei più evidenti, a mio avviso, riguarda il capitello dove Saunière avrebbe trovato le pergamene, secondo la leggenda. Il sacerdote lo fa spostare all’entrata della chiesa, posizionandolo sottosopra. Così facendo, la croce incisa su di esso risulta capovolta. In altre parole, il sacerdote posiziona la croce a testa in giù. La scelta non è facilmente attribuibile a un errore, considerata la vasta cultura di Saunière, ma piuttosto a una ragione specifica. Sopra la croce capovolta, il sacerdote posiziona una statua di Nostra Signora di Lourdes, sormontata da una curiosa corona turrita, estranea all’iconografia specifica dell’apparizione mariana. Quelle torri potrebbero essere un riferimento alla “turrita” della nostra Leggenda, ossia Maria Maddalena.
L’altra figura di spicco è certamente Pierre Plantard. Chi era?
Pierre Plantard è stato uno scrittore e un politico francese, Gran Maestro del misterioso ordine iniziatico cavalleresco del Priorato di Sion. Plantard divenne famoso a partire dagli anni Sessanta, per aver dichiarato di discendere dall’antica dinastia dei Merovingi che, secondo le sue fonti, sarebbe sopravvissuta fino ai giorni nostri, attraverso il figlio nascosto di Dagoberto II, ovvero Sigisberto IV. Secondo alcune versioni di questa leggenda, la dinastia dei Merovingi sarebbe oltremodo importante, poiché deriverebbe addirittura dall’unione di Gesù e Maddalena, attraverso il cui matrimonio sarebbe proseguito il Sang Réal, ovvero il Sangue Reale, il Santo Graal.
Plantard giocò un ruolo rilevante, insieme ad altri suoi collaboratori, quali Gérard de Sède e Philippe de Chérisey, per la diffusione e creazione di tutta una serie di documenti riguardanti Rennes-le-Château e le sue relazioni con alcune chiese parigine, tra i quali il manoscritto del Serpent Rouge. C’è molto dibattito in merito a questa ricchissima documentazione, che può essere considerata vera, falsa o anche “finta”, intendendo con questo termine qualcosa che somiglia a una leggenda, con un vestito di finzione che copre un nucleo di verità storica, psichica o spirituale.
Arriviamo al misterioso testo del Serpent Rouge. Perché è così importante? Cosa ha scoperto nei suoi studi?
Il Serpent Rouge è un manoscritto esoterico depositato nel 1967 alla Biblioteca Nazionale di Parigi. La paternità dell’opera è discussa, ufficialmente attribuita a tre autori, trovati morti tra il 6 e il 7 marzo dello stesso anno, e probabilmente correlata al Priorato di Sion. Il testo è cruciale per l’avvicinamento ai segreti di Rennes-le-Château, una vera e propria mappa che unisce il piccolo paese della Linguadoca ad alcune chiese parigine, che custodiscono tracce artistiche e sapienziali molto significative. Si tratta di un testo complesso, con un ricco corollario simbolico. Il manoscritto presenta una prima parte più nota, in forma di poemetto astrologico dal linguaggio spiccatamente criptico, e una seconda parte di collage di immagini e testi, ugualmente sibillina.
Ho cercato di sviscerare i collegamenti tra Rennes-le-Château e Parigi, suggeriti dal Serpent Rouge, andando in cerca dei segreti delle grandi pitture murali della chiesa di Saint-Sulpice e delle tombe di Saint-Germain-des-Prés, passando per le antiche miniere nei dintorni di Rennes-le-Château e per gli archivi dei magazzini del Louvre.
Ad oggi, credo che l’autore o gli autori del Serpent Rouge stessero tramandando una leggenda che potrebbe andare addirittura oltre un possibile matrimonio tra Gesù e Maddalena, ricollegandosi ad antichissime e sotterranee eresie cristiane, che attraversano i millenni, affacciandosi talvolta nell’arte.
Quali sono le connessioni con la chiesa parigina di Saint-Sulpice?
La chiesa di Saint-Sulpice è una mappa fondamentale per la comprensione di Rennes-le-Château e dell’esoterismo parigino ed è oggetto di studio di ricercatori, confraternite iniziatiche e società riservate. Saint-Sulpice custodisce tesori artistici e sapienziali, nascosti in iscrizioni parzialmente scalpellate durante la Rivoluzione Francese (quando la chiesa fu trasformata nel Tempio della Ragione), nella Via Crucis e soprattutto nelle maestose pitture murali di Delacroix e di Signol. Le opere di quest’ultimo, nel monumentale transetto, custodiscono particolari nascosti di estremo interesse, oltre a quattro porticine, che conducono probabilmente a intercapedini dietro gli altari, e che si trovano sotto le quattro discusse firme dell’artista. Due di queste presentano la N inversa, simbolo che ritorna nelle vicende di Rennes-le-Château ed è in relazione al serpente e all’Arca dell’Alleanza. Le opere di Delacroix, nella Cappella degli Angeli, sarebbero correlate, secondo la narrativa del Priorato, direttamente ai territori attorno a Rennes-le-Château: si tratterebbe di vere e proprie mappe artistiche di luoghi specifici. È da considerare con cura anche l’intricato sistema di cripte della chiesa, che ospitò migliaia di sepolture, in un vero e proprio labirinto sotterraneo.
L’intera vicenda sembra collegare tantissimi elementi come tasselli di un grande componimento: arte, storia, religione, miti, simboli e codici segreti. Sembra una ri-cerca infinita. Lei, infatti, parla della Cerca. Quali sono secondo lei gli aspetti ancora oscuri da studiare e mettere in evidenza?
Dal punto di vista archeologico, credo sarebbe necessario effettuare nuovi studi nella chiesa di Rennes-le-Château, vagliando con particolare cura anche il presbiterio. Simili ricerche dovrebbero essere, a mio avviso, condotte anche nella vicina Rennes-les-Bains, con particolare attenzione al labirinto di miniere nelle zone del Serbairou, Cardou e anche di Roque Nègre dove, secondo la documentazione del Priorato, si celerebbe l’entrata di un tempio sotterraneo, correlato al mito della Tavola Rotonda.
Sarebbe parallelamente interessante approfondire le intenzioni del Priorato di Sion di Plantard, chiedendoci quale fosse il vero obiettivo nel condividere così tanta documentazione in merito a Rennes-le-Château. Al di là della veridicità delle fonti, potremmo chiederci, ad esempio, se fosse all’epoca previsto o addirittura auspicato che la grande attenzione in questi luoghi potesse far emergere qualche evidenza archeologica o documentale, di cui forse certi circoli erano a conoscenza o alla ricerca.
I tesori sapienziali di Rennes-le-Château potrebbero essere correlati a quelli di Catari e Cavalieri Templari, entrambi presenti in Linguadoca. L’importanza di questa terra e dei suoi segreti, d’altra parte, potrebbe essere testimoniata dal fatto che la più importante crociata che non si concentrò sulla Terra Santa di Gerusalemme si scatenò proprio in Linguadoca, forse la Nuova Terra Santa.
«Roma è una città che non produce più niente, non ci sono industrie, non c'è cultura d'impresa, l'economia è parassitaria, il turismo è di terz'ordine. I ministeri, il Vaticano, la Rai, i tribunali… ecco di cosa è fatta Roma, una città che produce ormai solo potere, potere che ricade su altro potere, che schiaccia altro potere, che concima altro potere, il tutto senza mai un progresso, è normale che poi la gente impazzisce».
Il romanzo La città dei vivi di Nicola Lagioia è uno spaccato crudele ma reale della città eterna; la capitale più bella del mondo ingloba in sé lo stato più piccolo, ma per certi versi più grande del mondo: la Città del Vaticano. Quando cinematograficamente si pensa alla Grande Bellezza, Roma assorbe integralmente questo appellativo: città grandiosa, eterea e per alcuni versi maledetta e misteriosa.
Nell’ombra di questa bellezza, nelle pieghe del potere che prende fluidamente forma nelle stanze delle poltrone e nella spirale degli appartamenti sacri, da sempre sono custoditi silenziosamente misteri irrisolti. Ieri come oggi, forse come domani: micro-storie di persone “normali” che nella città dei vivi hanno conquistato tragicamente l’attenzione dell’opinione pubblica.
Come è successo, per esempio, nel caso di tre donne, con una vita apparentemente normale, inghiottite nell’ombra onnivora di una città tanto meravigliosa quanto famelica. Loro si chiamavano Mirella Gregori, Emanuela Orlandi e Simonetta Cesaroni. Diverse, ma legate da un invisibile filo misterioso.
Mirella Gregori: un caso nell’ombra
Quando si parla di Mirella Gregori spesso lo si fa solo marginalmente al caso più famoso della coetanea Emanuela Orlandi; strano il destino di questa ragazza quindicenne che, dopo il clamore inziale, non ha avuto lo stesso risalto mediatico della citata vicenda analoga.
La sparizione di Mirella Gregori è avvenuta il 7 maggio 1983 a Roma. L’aspetto, dunque, che in primis attira l’attenzione è certamente il luogo: la Città del Vaticano. Come può il luogo spirituale per eccellenza essere il palcoscenico di misteriose sparizioni? Sebbene storicamente fatti, per così dire “misteriosi”, sono sempre accaduti all’ombra del Cupolone e in alcuni casi anche dentro le gloriose stanze.
Mirella Gregori era nata a Roma il 7 ottobre 1967; per uno strano gioco del destino era nata ed è scomparsa nello stesso giorno, sebbene in mesi diversi. I più attenti noteranno il valore esoterico e profondamente spirituale di questo numero, ma forse si tratta solo di un caso.
Mirella era la figlia minore dei titolari di un bar in via Volturno e viveva con i suoi genitori in via Nomentana; studiava con profitto presso un istituto tecnico della capitale.
Il giorno della scomparsa, la ragazza si è recata regolarmente a scuola ed è tornata a casa verso le 14, dopo essersi intrattenuta in un bar vicino nelle vicinanze assieme all'amica Sonia De Vito.
Tornata a casa, Mirella è stata chiamata al citofono da un sedicente amico, tale Alessandro, alle cui richieste di uscire avrebbe esclamato: «Se non mi dici chi sei, non scendo!», per poi prendere tempo e proporre di vedersi verso le 15. A quell'ora, la ragazza effettivamente è uscita, dicendo alla madre che aveva un appuntamento presso il monumento al bersagliere di Porta Pia con un vecchio compagno di classe il quale ascoltato poi dagli inquirenti dichiarerà che quel pomeriggio era impegnato altrove. Da quel momento la famiglia non ha più avuto notizie della ragazza.
La madre ha successivamente riferito un avvenimento particolare che forse non è stato mai approfondito adeguatamente: la figlia poco prima di sparire si vantava con lei di essere in grado di trovare il denaro necessario all'acquisto di un appartamento che i genitori non si potevano permettere. La stessa madre, durante una visita del Papa alla parrocchia romana di San Giuseppe il 15 dicembre 1985, ha riconosciuto in un uomo della gendarmeria vaticana facente parte della scorta, Raoul Bonarelli, una persona che spesso si intratteneva con la figlia e una sua amica in un bar vicino casa.
Il caso è rimasto irrisolto, ma nel corso degli anni, come si diceva, si è sempre più o meno velatamente intrecciato con quello di Emanuela Orlandi, ma soprattutto con trame di potere di portata internazionale; infatti secondo la testimonianza di Mehmet Ali Ağca, attentatore di Giovanni Paolo II, la scomparsa delle due ragazze sarebbe collegata a quella del giornalista sovietico Oleg G. Bitov, avvenuta il 9 settembre dello stesso anno presso il Festival del Cinema di Venezia. In diversi comunicati l'organizzazione di estrema destra turca dei Lupi Grigi avrebbe dichiarato di custodire entrambe le ragazze. In realtà, secondo quanto dichiarato da Günter Bohnsack, ex-ufficiale della Stasi (il servizio segreto della Germania Est), sarebbero stati i servizi della Germania Est, assieme a quelli bulgari e ai sovietici del KGB, a servirsi del caso delle due quindicenni e in particolare di quello della Orlandi.
Emanuela Orlandi: il grande mistero vaticano
Chi ha vissuto l’adolescenza a cavallo della prima metà degli anni ’80 ha ben chiaro nella memoria i mesi di angoscia vissuti per la misteriosa scomparsa in particolare di una ragazza la cui immagine con una fascia in testa divenne quasi un’icona. La notizia ebbe una grande eco nazionale e internazionale e ha occupato le cronache dei giornali per diverso tempo; il suo nome era Emanuela Orlandi, anch’essa cittadina vaticana, scomparsa il 22 giugno 1983 mentre rientrava a casa dopo le lezioni di musica.
La vicenda è un intricato dedalo di implicazioni, complicazioni e sospetti a vari livelli che ha coinvolto a vario titolo lo stesso Stato Vaticano, lo Stato Italiano, l'Istituto per le opere di religione, il Banco Ambrosiano e i servizi segreti di diversi stati, nonché la banda della Magliana e alcune organizzazioni terroristiche internazionali.
Emanuela era nata a Roma il 14 gennaio 1968, penultima figlia di Ercole, commesso della Prefettura della casa pontificia e Maria Pezzano.
Nel giugno 1983 aveva appena terminato il secondo anno del liceo scientifico presso il convitto nazionale Vittorio Emanuele II, ma frequentava da anni anche l'Accademia di Musica Tommaso Ludovico da Victoria in piazza Sant'Apollinare dove seguiva i corsi di pianoforte, flauto traverso, canto corale e solfeggio.
Il giorno della scomparsa è uscita da casa alle 16 circa per recarsi proprio alle lezioni di musica che si sarebbero tenute fino alle 19. Uscita dalla lezione di canto dieci minuti prima del previsto ha telefonato a casa da una cabina; le aveva risposto la sorella Federica alla quale aveva riferito che un uomo l'aveva fermata proponendole un lavoro di volantinaggio da svolgersi durante una sfilata di moda nell'atelier delle Sorelle Fontana che si sarebbe tenuta dopo pochi giorni.
Dopo la telefonata con la sorella ha aspettato l'uscita delle altre compagne del corso di canto e insieme a due di esse, Raffaella Monzi e Maria Grazia Casini, ha raggiunto la fermata dell'autobus in Corso Rinascimento. Intorno alle 19:30, prima Maria Grazia e poi Raffaella sono salite su due differenti autobus, mentre, a detta di Raffaella, Emanuela non è salita sull'autobus poiché troppo affollato, dicendo che avrebbe atteso quello successivo. Da quel momento si sono perse definitivamente le tracce della ragazza.
Secondo un'altra versione, dopo la telefonata, Emanuela avrebbe confidato all'amica Raffaella Monzi che sarebbe rimasta ad attendere l'uomo che le aveva fatto l'offerta di lavoro.
Da questo momento iniziarono una strana girandola di telefonate anonime che crearono una notevole confusione nelle indagini e un clima di sospetti misto a speranze.
Già da subito, per esempio, arrivò agli Orlandi una chiamata da parte di un giovane che disse di chiamarsi Pierluigi il quale raccontò che insieme alla sua fidanzata aveva incontrato a Campo de' Fiori due ragazze, una delle quali vendeva cosmetici, che aveva con sé un flauto e diceva di chiamarsi Barbara.
Qualche giorno dopo la famiglia è stata contattata da un tale Mario, sedicente titolare di un bar nel centro di Roma, nei pressi di piazza dell'Orologio assai vicina al Ponte Vittorio, lungo il tragitto che Emanuela percorreva abitualmente per recarsi alla scuola di musica. Anch'egli sosteneva di aver visto un uomo e due ragazze che vendevano cosmetici, una delle quali diceva di essere di Venezia e chiamarsi Barbarella. In una seconda telefonata Mario ha spiegato che Barbara gli avrebbe confidato di essersi allontanata volontariamente da casa perché stufa della routine domestica, ma di essere intenzionata a fare rientro alla fine dell'estate per il matrimonio della sorella.
Nel corso degli anni si sono succedute varie ipotesi e indiscrezioni; ad esempio una fonte anonima nel 2005 avrebbe fatto rivelazioni circa il decesso della ragazza, forse accidentale, in seguito a un "incontro conviviale" tenutosi in una casa del Gianicolo nella residenza di un alto prelato o comunque di una persona vicina agli ambienti vaticani e che il suo cadavere sarebbe stato probabilmente occultato nelle vicinanze.
A un certo punto della vicenda sembra esserci un colpo di scena: l'11 luglio del 2005, alla redazione del programma Chi l'ha visto? è arrivata una telefonata anonima in cui si diceva che per risolvere il caso di Emanuela Orlandi era necessario andare a vedere chi fosse sepolto nella basilica di Sant'Apollinare e tenere in conto «del favore che Renatino fece al cardinal Poletti». Si è scoperto poi che il defunto era il capo della Banda della Magliana, ossia Enrico De Pedis (detto Renatino).
A questo punto è entrata in scena una figura particolare: Sabrina Minardi, compagna all’epoca proprio di De Pedis che ha raccontato di essere arrivata in auto al bar del Gianicolo, dove De Pedis le aveva detto di incontrare una ragazza che avrebbe dovuto «accompagnare al benzinaio del Vaticano». All'appuntamento arrivarono una BMW scura, con alla guida un certo Sergio (autista di De Pedis) e una Renault 5 rossa con a bordo una certa Teresina (la governante di Daniela Mobili, amica della Minardi) e una ragazzina in stato confusionale, riconosciuta dalla testimone proprio come Emanuela Orlandi. Sergio l'avrebbe messa nella BMW alla cui guida andò la Minardi stessa. Rimasta sola in auto con la ragazza, la donna notò che questa «piangeva e rideva insieme» e «sembrava drogata». Arrivata al benzinaio, trovò ad aspettare in una Mercedes targata Città del Vaticano un uomo «che sembrava un sacerdote» che la prese in consegna. La ragazza avrebbe, quindi, trascorso la sua prigionia a Roma in un'abitazione di proprietà di Daniela Mobili in via Antonio Pignatelli 13 a Monteverde che aveva «un sotterraneo immenso che arrivava quasi fino all'Ospedale San Camillo».
Dopo essere stata ritenuta una testimone chiave e affidabile, le dichiarazioni di Sabrina Minardi si sono fatte sempre di più confusionarie e contraddittorie. A un certo punto, per esempio, ha sostenuto che Emanuela Orlandi sarebbe stata uccisa e il suo corpo, rinchiuso dentro un sacco, sarebbe stato gettato in una betoniera a Torvaianica, mentre in una seconda dichiarazione, invece, avrebbe detto che sarebbe stato gettato in mare. Stando a quanto riferito dalla donna, comunque, il rapimento di Emanuela sarebbe stato effettuato materialmente da De Pedis, su ordine di monsignor Marcinkus «come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro».
Nel 2012 il giornalista Giuseppe Nicotri ha sostenuto che secondo alcune dichiarazioni di Mehmet Ali Ağca nel rapimento della Orlandi vi sarebbe stato il coinvolgimento di Giovanni Adamo II del Liechtenstein che avrebbe partecipato a un incontro in Vaticano avvenuto l'11 giugno 1983 (tra i presenti ci sarebbe stato anche il cardinal Agostino Casaroli) nel quale è stato deciso il sequestro e il trasferimento di Emanuela in Liechtenstein.
In questo meandro di ipotesi, sospetti e illazioni si fa strada anche la possibilità che effettivamente la Orlandi fosse stata rapita dalla Banda della Magliana per ottenere la restituzione del denaro investito nello IOR attraverso il Banco Ambrosiano, come ipotizzato dal giudice Rosario Priore. Secondo queste ipotesi, dunque, di riflesso l'omicidio di Michele Sindona e quello di Roberto Calvi sarebbero legati proprio al sequestro Orlandi.
Il 14 maggio 2012 è stata aperta la tomba di De Pedis, ma al suo interno era presente unicamente la salma del defunto che, per espresso desiderio dei familiari, è stata poi cremata. Si è scavato anche più approfonditamente, ma sono state trovate solo nicchie con resti di ossa risalenti al periodo napoleonico e niente altro.
La vicenda sembra interminabile e piena sempre di nuovi elementi. Nel settembre 2017 il giornalista Emiliano Fittipaldi ha pubblicato nel suo libro un documento datato 28 marzo 1998 spedito per conoscenza dall'allora capo dell'APSA (l'ente che amministra il patrimonio della Santa Sede) cardinale Lorenzo Antonetti (morto tre anni prima) agli arcivescovi Giovanni Battista Re (allora sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato) e Jean-Louis Tauran (addetto ai Rapporti con gli Stati) dal titolo Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi; al primo capoverso si legge: «La prefettura dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell'allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi». Il resoconto in possesso di Fittipaldi è un documento dattiloscritto ma non contiene timbri ufficiali e quindi potrebbe essere anche un falso, ma elenca le spese che sarebbero state sostenute tra il gennaio 1983 (sei mesi prima della scomparsa) e il luglio 1997 per la gestione della vicenda Orlandi per una somma totale di 483 milioni di lire e in particolare sono riportate le cifre relative alle rette di vitto e alloggio presso l'ostello delle studentesse dei padri scalabriniani al 176 di Clapham Road a Londra dove la ragazza avrebbe vissuto in clandestinità per diversi anni.
Una storia che purtroppo ad oggi non ha trovato un epilogo e una soluzione ma solo un impenetrabile muro di gomma, dietro il quale probabilmente si nascondono indicibili segreti e trame oscure di alto livello.
Il delitto di via Poma
Mirella ed Emanuela non sono stati casi isolati, ma forse i più significati di un preciso peridio storico; alla ribalta delle cronache qualche anno dopo ancora un’alta ragazza: stiamo parlando dell’assassinio di Simonetta Cesaroni consumato nel pomeriggio di martedì 7 agosto 1990 in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2 nel quartiere Della Vittoria.
Simonetta Cesaroni era nata il 5 novembre 1969 nel quartiere Don Bosco zona Lamaro. A gennaio del 1990 aveva iniziato a lavorare come segretaria per alcuni giorni a settimana presso la Reli Sas (uno studio commerciale) che aveva tra i suoi clienti la A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù).
Il pomeriggio del 7 agosto 1990 si era recata presso la sede per sbrigare alcune pratiche; alle 17:15 risalirebbe l'ultimo riscontro certo di Simonetta ancora in vita in quanto ha fatto una telefonata di lavoro a Luigia Berrettini. I familiari, non vedendola tornare, alle 21:30 hanno deciso di cercarla. Accompagnati dal datore di lavoro, la sorella Paola e il fidanzato di questa sono giunti presso gli uffici di via Poma, dove si sono fatti aprire la porta dalla moglie del portiere alle 23:30, trovando il cadavere di Simonetta, uccisa con 29 coltellate.
Dalle indagini è emerso come, dopo le 17:30, ultimo contatto di Simonetta secondo le ricostruzioni degli inquirenti, ci sia stato con ogni probabilità negli uffici un uomo con il quale Simonetta ha avuto una colluttazione terminata nella stanza opposta a quella dove lavorava e dove sarà poi ritrovata. È stata colpita al volto con un manrovescio che l’ha tramortita. È stata poi immobilizzata a terra: qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e si è accanito con sei colpi inferti al viso, all'altezza del sopracciglio destro, nell'occhio destro e poi nell'occhio sinistro, otto lungo tutto il corpo, sul seno e sul ventre e quattordici dal basso ventre al pube, ai lati dei genitali.
Alcuni abiti di Simonetta, fuseaux sportivi blu, la giacca e gli slip sono stati portati via assieme a molti effetti personali che non saranno mai ritrovati, tra cui gli orecchini d'oro, un anello d'oro, un bracciale d'oro e un girocollo d'oro, mentre l'orologio le fu lasciato al polso.
I primi sospetti sono ricaduti immediatamente su uno dei portieri dello stabile, Pietrino Vanacore, anche perché non si trovava con gli altri nel cortile nell'orario che andava dalle 17:30 alle 18:30, cioè quando Simonetta era stata presumibilmente uccisa.
Poche settimane dopo il proscioglimento definitivo di Pietrino Vanacore è arrivata in procura una lettera anonima che suggeriva di indagare sulla pista del Videotel: una conversazione alla quale si poteva accedere con il computer all'inizio degli anni novanta. La pista, battuta per alcuni anni dagli inquirenti, suggeriva l'ipotesi che Simonetta avesse fatto uso del computer dell'ufficio di via Poma per entrare in contatto con altri utenti. Così, casualmente, avrebbe conosciuto il suo assassino al quale avrebbe dato un appuntamento per quel tragico pomeriggio del 7 agosto 1990.
A 20 anni di distanza dal delitto, il 9 marzo 2010 Vanacore si è suicidato gettandosi in mare, vicino a Torricella, dove viveva da anni.
A febbraio 2005 è stato prelevato il DNA a 30 persone sospettate del delitto, tra cui anche Raniero Busco, fidanzato di Simonetta ai tempi del delitto. Il corpetto e il reggiseno della ragazza avevano dato un risultato utile: un DNA di sesso maschile. Nel processo di primo grado, concluso nel 2011, Busco è stato condannato, ma in quello di appello, concluso nel 2012, è stato assolto e lo stesso esito è stato poi confermato anche dalla cassazione nel 2014.
Inoltre nelle indagini sono emersi anche alcuni elementi molto strani collegati alle attività della AIAG di via Poma: l'ufficio sarebbe stato un luogo di copertura per alcune attività dei servizi segreti italiani nell'ambito della cooperazione allo sviluppo in Somalia; Simonetta, incaricata di stipulare contratti per conto di alcune società al di fuori della sua normale professione, sarebbe stata a conoscenza di queste attività illecite.
Tra le piste alternative seguite subito dopo l'omicidio vi è anche quella di un omicidio voluto della Banda della Magliana ed effettuato materialmente dai servizi segreti italiani con la complicità del Vaticano. Si è prospettata l’ipotesi, infatti che la ragazza avesse scoperto quasi per caso negli archivi della stessa A.I.A.G. documenti che testimoniavano dei presunti favori fatti dalla stessa agenzia e altri enti edili a favore della Banda della Magliana con il benestare del Vaticano.
Questa ultima pista, incredibilmente, si riconduce alle vicende di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi. Tutte queste storie restano sospese, tra il definito e l’indefinito, proprio come un ultimo sospiro tra la vita e la morte. A tal proposito ancora Nicola Lagioia nel suo romanzo afferma: «Ci sono le città dei vivi, popolate da morti. E poi ci sono le città dei morti, le uniche dove la vita abbia ancora un senso».
Giorgio Baietti è un giornalista indipendente, laureato in lettere e in Sociologia e insegnante di filosofia e storia. Dal 1986 si occupa del mistero di Rennes le Chateau sul quale ha scritta vari saggi, due romanzi e un racconto. L’ultimo libro, uscito recentemente, è I Catari e il loro mistero nel quale analizza l’affascinante ricostruzione storica di una vicenda mai chiarita del tutto.
Conosciamo da vicino la vicenda dei Catari attraverso le pagine del recente libro di Giorgio Baietti.
Partiamo prima di tutto dal titolo del libro. Perché si tratta di un mistero?
Mistero: una parola di sette lettere che vale un intero alfabeto di storia e emozioni. Così potrei iniziare a parlare dei Catari e del loro sogno che si è fatto realtà nella notte dei tempi in una zona dell’odierno sud della Francia (non come la intendiamo oggi ma Provenza, ossia una zona con una propria lingua, usi e costumi del tutto differenti da quelli francesi). La vita dei Catari era improntata alla ricerca quotidiana di quello che sarebbe avvenuto dopo la loro morte fisica quando lo spirito avrebbe raggiunto, finalmente, la beatitudine eterna; sarebbe ritornato a casa. Custodivano un grande segreto e un altrettanto grande tesoro che non era fatto di oro e pietre preziose ma che per loro valeva il sacrificio della vita terrena.
Inquadriamo brevemente il periodo storico di riferimento. Chi erano dunque i Catari?
Catari deriva dal greco katharoi, i “puri”; si tratta di un termine che usiamo per comodità ma, in realtà, i diretti interessati, non si chiamavano in questo modo, preferendo il termine generico di “Buoni uomini” e “Buone donne” oppure “Buoni cristiani”. Sono stati erroneamente identificati anche come Patarini, Bogomili e Albigesi; tutti nomi che sfioravano il loro credo ma non lo comprendevano del tutto. Usiamo, comunque, l’appellativo Cataro che, ad ogni modo, richiamando la purezza è perfettamente calzante per nominarli.
I Catari erano i seguaci di una religione dualista, basata sul rifiuto dell’Antico Testamento e della materia. Credevano in due divinità; una vera e propria, il Dio dello spirito da loro amato e seguito e il Rex Mundi, ovvero il “re del mondo materiale”, emblema di tutto ciò che era tangibile e corruttibile, cioè i tipici beni terrestri e la ricchezza. A partire dal 1163 si comincia a parlare di loro per bocca dell’abate Ecberto di Sconau che li identifica con tale appellativo. Quattro anni dopo, nel 1167 si tenne il primo concilio a Saint-Félix-de-Caraman, nei dintorni di Tolosa, in cui si posero le basi per la chiesa catara alla presenza del Pope Niceta, alto rappresentante della chiesa Bogomila della Bulgaria da cui i Catari mutuarono diversi aspetti.
Quali erano le basi teologiche e religiose di questo movimento?
Essenzialmente credevano nel Vangelo e, in particolare, in quello di Giovanni. Come detto, rifiutavano l’Antico Testamento che, secondo il loro credo, non era stato dettato da Dio ma dal Rex Mundi, ossia la divinità preposta alla materia e, come tale, non degno di essere pregato e adorato. Solo lo spirito contava per i Catari e l’unico Dio in cui credevano era quello dei cieli, dell’immanente, dello Spirito puro.
Parliamo di un aspetto particolare: l’importanza della donna nella cultura catara che sfocia anche, per esempio, nell’adorazione per Maria Maddalena.
Sì, la donna aveva un ruolo di primissimo piano nell’universo cataro e non era raro trovare a capo di una comunità religiosa proprio una donna che poteva tranquillamente diventare “Perfetta”, ossia colei che ricevendo il sacramento supremo del Consolamentum morendo, naturalmente o col suicidio tramite Endura, saliva direttamente al cielo, diveniva un tutt’uno con il Dio dello spirito, la vera e unica divinità considerata tale e adorata.
Ciò che è fondamentale sottolineare riguarda il ruolo femminile che era del tutto simile e uguale a quello maschile; uomo e donna potevano rivestire le medesime funzioni e affermare questo, nel dodicesimo secolo, è già di per sé qualcosa di enorme.
Una piccola precisazione: sarà proprio una donna a manovrare la catapulta che ucciderà Simon de Montfort (il condottiero delle truppe del Papa che guidava la Crociata contro i Catari) sotto le mura della città di Tolosa.
Quali erano le loro pratiche religiose? Avevano dei rituali particolari?
Innanzitutto avevano alcune preghiere specifiche, prima fra tutte il Padre Nostro che era simile a quello dei cattolici ma aveva una piccola e significativa variante: al posto di “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, loro recitavano “Dacci oggi il nostro pane sovrassustanziale”, ossia un “pane” di nutrimento per l’anima, l’unica cosa che interessava loro; il corpo fisico era del tutto trascurabile. Altra preghiera (nel mio libro vi è un’intera appendice scritta apposta per elencare le loro preghiere e invocazioni) molto significativa era il “Padre Santo” di cui trascrivo i primi passaggi: “Padre Santo, Dio legittimo degli Spiriti buoni che non hai mai ingannato, mentito né errato, né esitato per paura della morte a discendere nel Mondo del Dio straniero, perché noi non siamo del Mondo né il Mondo è nostro, concedi a noi di conoscere ciò che tu conosci e di amare ciò che tu ami”.
Il loro credo più importante in assoluto era, come visto, il Consolamentum che si otteneva dopo un percorso di vita molto particolare e con l’accortezza di avere un rapporto minimo col mondo materiale e, ad esempio, con il consumo di carne e con la pratica dell’ascetismo e della castità. Una volta ottenuto questo sacramento ci si poteva tranquillamente suicidare per raggiungere il prima possibile il mondo spirituale e il vero Dio. Questo suicidio si chiamava Endura e si poteva ottenere in vari modi: con bagni bollenti e gelidi per avere una congestione polmonare oppure lasciandosi morire di fame, di sete e di freddo, ad esempio, in cima a una montagna (e le vette dei Pirenei rappresentavano la migliore soluzione) immergendosi nella neve e nel ghiaccio e aspettando la fine guardando il sole nascente.
Qual è stato il rapporto con la Chiesa Cattolica?
Bisogna subito precisare che i Catari non odiavano la Chiesa di Roma; non vi era alcun risentimento nei confronti del cattolicesimo e dei suoi esponenti, dal Papa all’ultimo dei sacerdoti. I Catari seguivano i propri dettami religiosi e il proprio stile di vita e non criticavano chi la pensava diversamente. Erano un esempio di rettitudine per la gente dei villaggi che, come si dice, “aveva gli occhi per vedere” e per giudicare. Purtroppo buona parte del clero locale del tempo era corrotto e non si prendevano i sacri voti, come avviene oggi per una precisa e motivata scelta esistenziale, ma si diveniva sacerdote, spesso, per avere un ruolo importante all’interno della comunità e godere di privilegi prettamente materiali. La gente dell’epoca confrontava questi due stili di vita e si sentiva attratta dai Catari e dal loro comportamento ineccepibile. La chiesa, proprio per queste scelte, comincia a nutrire un certo fastidio che aumenterà fino ad assumere un vero e proprio astio che papa Innocenzo III trasformerà a proprio uso in una terribile crociata.
Perché furono perseguitati e trucidati? Quali potrebbero essere le ragioni più nascoste?
La crociata era in aspettativa da alcuni anni e trova la causa scatenante in un omicidio ossia quello di Pierre di Castelnau (1170 – 1208), un frate cistercense divenuto poi legato straordinario di papa Innocenzo III e da questi inviato appositamente nelle “terre catare” con lo scopo di estirpare l’eresia o, almeno, dare un duro colpo a coloro che il pontefice definiva “l’immonda lebbra del sud”. Catelnau insieme a tre confratelli percorre in lungo e in largo la Linguadoca per portare a termine il suo compito, con il controllo di Domenico di Guzman, il futuro san Domenico. La tortura a cui sottopone molte persone catare o ritenute tali gli attira un odio sempre crescente e la mattina del 16 gennaio 1208 è ucciso (vi sono due versioni, o pugnalato o trafitto con una lancia) sulle rive del fiume Rodano. Responsabile è ritenuto il conte Raimondo VI di Tolosa, celebre protettore dei Catari e per questo la furia papale si abbatte su di loro. Il motivo scatenante è questo ma vi sono cause nascoste e sicuramente più importanti e che toccano, come sempre nelle guerre, l’aspetto economico. La Linguadoca era una terra ricca, sicuramente molto più ricca della Francia del nord e i principi di quelle terre non vedevano l’ora di mettere le mani su quelle ricchezze; la crociata religiosa diventa lo spunto perfetto per mettere in pratica i loro desideri materiali e per nulla spirituali. Un ultimo aspetto potrebbe riguardare il Santo Graal che, voci sempre più diffuse davano come oggetto posseduto dai Catari e, quindi, un ulteriore spinta a occupare le loro terre.
Parliamo di Montségur.
É un luogo bellissimo, denso di storia e di fascino; un nido d’aquila che svetta su un pane di roccia di 1250 metri di altitudine nel dipartimento dell’Ariège a una cinquantina di chilometri da Rennes le Chateau. La fortezza è stata costruita nel 1204 grazie a Raymond de Péreille, signore del luogo, proprio per dare rifugio ai Catari che fuggivano dall’inquisizione e sorge sulle rovine di un antico tempio la cui origine si perde nella notte dei tempi e che, sicuramente, all’origine era un tempio solare. Ancora oggi, infatti, al solstizio d’estate il sole attraversa interamente la struttura, da est a ovest, sfiorando la cima dell’altra montagna dei misteri, il Bugarach. L’assedio alla fortezza simbolica dei Catari (non l’ultima che sarà, invece, Queribus) ha inizio a aprile del 1243 e si conclude praticamente un anno dopo, il 16 marzo 1244. La notte del giorno precedente, 15 marzo, quattro Perfetti scendono con grande fatica da quei dirupi portando un oggetto, un “qualcosa” che non doveva finire nelle mani dei nemici. Messo in salvo il loro tesoro, qualunque cosa fosse, ci si poteva arrendere, il compito era concluso. All’alba del 16 marzo, duecentoventidue Catari scendono dalla montagna e rifiutano di abiurare la loro religione e, volontariamente, si gettano nell’immane rogo che è stato allestito lì alla base e che, da quel giorno, si chiamerà per sempre “Campo dei Cremati”. Dalle loro bocche ormai invase dal fumo e dalle fiamme non si levano maledizioni nei confronti degli aguzzini ma parole d’amore, l’ultimo messaggio di chi sa che tra poco avrà la beatitudine celeste : il vero motivo per vivere.
Quali potrebbero essere le connessioni con la vicenda di Rennes-le-Chateau?
Rennes le Chateau è al centro di un territorio chiamato tutt’oggi “Paese Cataro” e basta recarsi in quella stupenda regione del sud della Francia per constatarlo di persona; le carte turistiche contrassegnano in questo modo la zona che da Carcassonne scende verso i Pirenei, risalendo il corso del fiume Aude. Anche se Montségur, simbolo vivente del martirio dei Catari è in un altro dipartimento, l’Ariège, è proprio nei dintorni di Rennes le Chateau e i suoi villaggi attigui (Rennes les Bains, Couiza, Alet les Bains, Bugarach) che si respira nell’aria il loro ricordo indelebile. É come se ci fossero ancora, come se il loro credo e il loro insegnamento vibrassero nel vento che soffia, nell’acqua che scorre, nell’atmosfera che è impregnata di questo stile di vita che è stato volutamente annientato.
Volendo restare con i piedi per terra e non dar retta alle sensazioni, basiamoci sulle esperienze dirette e posso garantire che in tutti gli anni che sono stato in quella zona (dal 1986) ho potuto constatare che per molta gente del luogo, il catarismo è ancora presente, è considerato come parte integrante del territorio ed è una religione che, seppur non praticata, è viva e pulsante. Un ricordo lontanissimo eppur così vicino.
La vicenda di Rennes le Chateau e del suo parroco Bérenger Saunière non è direttamente collegata ai Catari ma vi sono, tra le svariate ipotesi sul favoloso tesoro, precisi riferimenti al Santo Graal (le prime lettere dei nomi dei santi le cui statue sono state collocate nella chiesa del villaggio da Saunière in persona darebbero una indicazione: Germana di Pibrac, Rocco, Antonio Abate, Antonio da Padova, Luca evangelista: G R A A L) e il favoloso oggetto materiale o spirituale che fosse, è strettamente collegato ai Catari e si ipotizza che sia quello che quattro Perfetti portano via da Montségur durante l’ultima Pasqua celebrata nella fortezza prima che capitolasse e tutti gli occupanti finissero volontariamente nell’immenso rogo nella vallata sottostante. Si pensa che uno dei luoghi in cui il misterioso e preziosissimo oggetto venne nascosto fu proprio Rennes le Chateau.
Cosa rimane oggi del catarismo?
Un ricordo, un sogno, un’idea. É una religione scomparsa ma che ha lasciato tracce invisibili ma altrettanto concrete la cui eco si può trovare in quella regione della Francia meridionale, nei corsi d’acqua, nelle rocce delle montagne, nel vento che soffia perenne su quelle cime e che sembra lasciare ancora oggi i loro sospiri e il loro messaggio. Basta recarsi in questa zona e chiudere gli occhi e si potrà vedere chiaramente.