Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
Per contatti e richiedere la presentazione dei libri mail: g.balena@libero.it
”Discendi nel cratere dello Jokull di Sneffels che l'ombra dello Scartaris viene a lambire prima delle calende di luglio, viaggiatore ardito, e perverrai al centro della Terra”. Questo il messaggio che appariva nelle rune tradotte trovate nel manoscritto nel secondo capitolo del famoso libro di Jules Verne dal titolo “Viaggio al centro della terra”.
Un libro affascinante che per anni è stato tra le letture preferite di molti adolescenti. La curiosità dell’uomo per l’esplorazione delle viscere della terra si è sviluppata sin dagli albori della civiltà, sospesa a metà strada tra la leggenda e il mito.
Le origini
Il concetto che il sottosuolo potesse ospitare e proteggere la vita è collegato in maniera ancestrale con la comparsa dell’uomo sulla terra. In un tempo lontanissimo, infatti, gli esseri umani trovarono riparo nelle caverne; quella che inizialmente era una necessità nel corso del tempo ha acquisito una valenza prima antropologica e poi concettuale e religiosa. Il primordiale senso religioso, infatti, con una matrice comune a molte popolazioni, è stato senza dubbio legato alla dea terra, proprio perché questa assumeva il ruolo primordiale di divinità ed era considerata come una madre: con i suoi frutti assicurava il nutrimento e con i suoi anfratti garantiva la protezione proprio come il ventre materno.
Numerose sono le leggende e i miri che riguardano il sottosuolo della Terra: da Orfeo che andava a cercare l’anima di Euridice sotto la crosta terrestre, passando per la figura di Ulisse che officinava un sacrificio affinché le anime degli antichi risalissero in superficie a consigliarlo, fino ad arrivare al mito di Plutone che regnava nel fondo della Terra sugli spiriti dei morti.
Un dato certo, quindi, è la stretta connessione concettuale del sottosuolo della Terra con le forme di credenze religiose più o meno strutturate.
Con l’affermarsi dell’Ebraismo prima e poi del Cristianesimo la concezione divina della Terra assume un’eccezione con sfumature negative; l’affermazione del monoteismo, di fatto, metteva al bando le divinità legate al culto della Terra madre. La stessa figura di Lucifero, scagliato sulla Terra e relegato agli inferi, ribaltava una visione fino a quel momento abbastanza consolidata: il centro della Terra non era più un posto ospitale, ma diventava il regno del male, un posto oscuro; non a caso e anche per questo motivo Lucifero è considerato, tra le altre cose, il “portatore di luce”; considerato tale, tra l’altro, proprio perché dal buio dell’abisso terrestre cerca di portare la luce all’esterno. Con questi nuovi elementi l’impianto mitologico si arricchiva di un nuovo aspetto: Lucifero diventava il portatore di conoscenze segrete da tramandare a gruppi iniziatici in maniera sotterranea. Ecco da dove nasce, tra l’altro, la credenza più o meno reale della presenza di gruppi organizzati che vivono in quella che è riconosciuta come la “Terra cava”.
Di questa impostazione risente anche l’intera struttura dell’'inferno dantesco, immaginato come una serie di anelli, sempre più stretti, che si succedono in sequenza e formano un tronco di cono rovesciato; l'estremità più stretta si trova in corrispondenza del centro della terra ed è interamente occupata proprio da Lucifero.
I primi riferimenti scientifici
A partire, però, dal XVII secolo si svilupparono varie teorie, con il supporto anche scientifico, in base alle quali la Terra avrebbe una struttura cava al suo interno. In particolare Edmund Halley nell'opera “Philosophical Transactions of Royal Society of London” nel 1692 propose l'idea che la terra fosse formata da un guscio esterno spesso 800 km, con due altri gusci interni concentrici e un nocciolo interno. Ogni guscio avrebbe i propri poli magnetici e ruoterebbe a velocità differente. Suggerì, inoltre, anche che queste sfere interne potessero essere abitate.
Teoria questa confermata più tardi anche da John Cleves Symmes che avanzò l'ipotesi che la Terra fosse formata da un guscio cavo di 1.300 km di spessore, con due cavità di 2.300 km di diametro su entrambi i poli geografici. Oltre alla crosta esterna ci sarebbero quattro gusci interni, anch'essi con aperture ai poli. Symmes fu il primo addirittura a proporre al Congresso degli Stati Uniti una spedizione alla ricerca del foro che secondo lui sarebbe collocato al Polo Nord.
I riferimenti romanzati
Già nel 1788 con la pubblicazione del romanzo “Icosaméron” Giacomo Casanova raccontava, in una storia di quasi due mila pagine, le vicende di un fratello e una sorella che cadevano all'interno della terra, scoprendo così l'utopia sotterranea dei Mégamicri, una razza di nani multicolori ed ermafroditi, molto simili agli gnomi.
Anche Edgar Allan Poe usò l'idea della Terra cava per il suo romanzo “Storia di Arthur Gordon Pym” del 1838 e ne fece riferimento anche in “Manoscritto trovato in una bottiglia” e ne “L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall”.
Il vero successo della teoria della Terra cava, però, si ebbe nel 1864 con il romanzo “Viaggio al centro della terra“ dello scrittore francese Jules Verne; questo è considerato il romanzo precursore del filone fantascientifico. Nel libro il cratere d’entrata era segnalato dall’ombra dello Snæffels il 22 giugno, il giorno solstizio d'estate. Come si può notare non è certamente un caso che l’antesignano della letteratura fantascientifica collochi la possibilità di accesso simbolicamente proprio in questo giorno particolare, ponendo così l’attenzione sul rapporto luce/ombra e sulla dualità superficie/profondità.
Nel 1871 sir Edward Bulwer-Lytton, scrittore politico ed esoterista, pubblicò un romanzo dal titolo “Vril, The Power of the Coming Race“, in cui sosteneva che all'interno della Terra si trovasse una razza di superuomini sopravvissuti a cataclismi mitologici. Il “Vril” era un'ipotetica forma di energia, sottoforma di fluido, che permetterebbe di avere poteri magici; il termine "Vril-ya" starebbe a indicare una razza semidivina in grado di curare qualsiasi malattia, animare un oggetto oppure distruggere, utilizzando speciali bastoni metallici di forma cilindrica dai quali confluiva questa particolare energia.
Le pubblicazioni sull’argomento continuarono per tutto il XIX secolo; degno di nota in questo periodo, per esempio, è il romanzo di John Uri Lloyd, farmacologo ed erborista, dal titolo “Etidorhpa”, dove si descriveva un viaggio immaginario fino al centro della terra a partire dalle caverne del Kentucky.
Nel corso della seconda metà del XX secolo, quando la teoria continuava a mantenere una discreta notorietà, furono pubblicati numerosi testi a carattere pseudoscientifico o fantastico, sull'onda dell'ascesa della letteratura del mistero.
La terra cava
Questo fiorire letterario dimostra il grande interesse che da sempre si è sviluppato per l’argomento. La teoria nel corso dei secoli si è sedimentata intorno a una credenza fondamentale: la Terra al suo interno sarebbe cava, cioè vuota e sospesa nell’incavo; al suo interno, inoltre, ci sarebbe un sole, fonte di vita e di energia.
Diversi popoli, con culture differenti, presentano una matrice comune di miti collegati alla Terra cava. In India, per esempio, vi era un’antica credenza, ancora viva nel presente, che narra di una stirpe di esseri rettiliani (uomini serpente) i quali vivrebbero nelle città sotterranee di Patala e Bhogavati. Secondo la leggenda tale popolo sarebbe in guerra con il regno di Agharti. In Tibet, invece, un grande santuario mistico denominato “Patala” si troverebbe in cima a un antico sistema di caverne e tunnel che si estenderebbe lungo tutto il continente asiatico e forse anche oltre. Le popolazioni del Sud America, infine, la individuano con il famoso continente dorato dell’Eldorado. Insomma, in tutto il mondo la Terra cava ha un sistema di credenze comuni che di volta in volta presentano varie denominazioni: il leggendario paradiso di Shambalà, la Terra delle Acque Candide, la Terra degli Spiriti Raggianti, la Terra del Fuoco Vivente, la Terra degli Dei Viventi. Gli indù la chiamavano Aryavartha, ossia la terra d’origine dei Veda; i Cinesi, invece, parlavano di Hsi Tien, il Paradiso Occidentale; la setta cristiana russa dei vecchi credenti la chiamava Belovodye e i Kirghizi la nominavano, invece, Janaidar.
Secondo queste leggende, comuni a molti popoli, originariamente c’erano due grandi continenti, Atlantide e Mu che, per misteriose ragioni, furono distrutte da un grande cataclisma. I superstiti si sarebbero divisi in diversi gruppi. Parte di questi avrebbero abitato le terre dell’Asia, dell’Europa e delle Americhe; gli altri, invece, gli “eletti" sarebbero scesi all’interno del pianeta e avrebbero dato vita a una civiltà nascosta e divisa in due grandi continenti: Eldorado e Agarthi. Il primo accessibile dal Polo Sud e il secondo dal Polo Nord.
Il mito di Agarthi
Agarthi, detto anche Agartha, significa ”inaccessibile" e fu descritta per la prima volta nelle opere dello scrittore Willis George Emerson. Questo la individuava come una civiltà nascosta all’interno dell’Asia centrale, separata da una cintura di montagne e suddivisa in otto parti e in settantasei regni. Kalapa sarebbe la capitale dove ha sede il palazzo del sacerdote-re.
Una delle testimonianze più incredibili su questo regno lo si può leggere nel libro del 1908 dal titolo “Il Dio fumoso” di Willis George Emerson che raccontava l’autobiografia di un marinaio norvegese chiamato Olaf Jansen; questo avrebbe navigato all'interno della Terra attraverso un'apertura presso il Polo Nord. Per due anni avrebbe vissuto con gli abitanti di questo regno illuminato da un "sole centrale fumoso".
Il mito di Agharti è stato rivalutato anche da Madame Blavatsky, la veggente fondatrice della Società Teosofica Internazionale; l’esoterista sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi “Maestri della Fratellanza Bianca”, ovvero con i sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra il Tibet e il Nepal i quali si sarebbero rifugiati nelle viscere della Terra in seguito a una spaventosa catastrofe. Dalle dottrine della Blavatsky prese ispirazione, tra gli altri, anche la Società Thule, ossia l’emanazione esoterica del partito nazista di Hitler. Sembra proprio, infatti, che il Fuhrer fosse così convinto della veridicità delle leggende in merito alla Terra cava al punto da finanziare una spedizione di ricerca in Antartide, la quale si concluse, perlomeno ufficialmente, con un insuccesso. Della missione parlò addirittura l'ammiraglio Donitz durante il processo di Norimberga.
Esisterebbero vari luoghi riconducibili ad Agharti: Atlantide, il Regno di Prete Gianni, il castello di Camelot, l’isola di Avalon, il Montsalvat dei miti di Re Artù, l’omerica isola di Ogigia, la mitica isola di Thule, il monte Meru, il monte Olimpo e il monte Qafal. Alcuni sono dei luoghi reali, altri solo immaginari. In particolare, inoltre, esisterebbero diversi ingressi al regno di Agharti:
Kentucky Mommoth Cave, USA
Mount Shasta, California, USA
Manaus, Brasile
Mato Grosso, Brasile
Cascate di Iguazù, sul confine tra Brasile e Argentina
Monte Epomeo, in Italia nell’isola di Ischia.
Montagne himalayane, Tibet. L'ingresso alla città sotterranea di Shonshe sarebbe custodito dai monaci indù.
Mongolia. La città sotterranea di Shingwa si troverebbe sotto il confine tra Mongolia e Cina
Rama, India
Piramide di Giza, Egitto
Miniere di Re Salomone
Polo Nord e Polo Sud
Il re del mondo
Nel 1924 fu pubblicato a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski dal titolo “Bestie, uomini e dèi”. Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell’Asia centrale, nel corso del quale l’autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso situato nel sottosuolo e le cui ramificazioni si estenderebbero ovunque. Il capo supremo di questo centro era conosciuto con l’appellativo di “Re del Mondo”. Questo studio fu riprese poi nel 1927 dall’esoterista francese Renè Guènon nel suo libro dal titolo proprio “Il Re del Mondo”.
Il centro del regno sotterraneo sorgerebbe sul principale incrocio delle correnti terrestri e sarebbe esso stesso a generare questi fiumi di energia che percorrono tutto il pianeta e si diffondono in superficie. Tale energia esisterebbe simultaneamente sia sul piano fisico sia su quello spirituale e solo pochissimi avrebbero la possibilità di beneficiarne. L’organizzazione della città sarebbe gestita da tre figure: Brahmatma, il Mahatma (colui che conosce il futuro) e il Mahanga (colui che procura le cause affinché gli avvenimenti si verifichino). Questa triade comanderebbe il clero militarizzato, ossia i templari confederati dell’Agharti; il livello più elevato sarebbe il cosiddetto “consiglio circolare” formato da dodici iniziati. Solo di rado il sovrano esce dal suo regno; comparirà davanti a tutti soltanto al momento opportuno, conducendo una battaglia degli uomini giusti contro i cattivi.
Ad Agharti si dice che sia nata la religione unica, primordiale e perfetta della cosiddetta “Età dell’Oro”, in grado per mezzo di pratiche mistiche di porre l’uomo in totale comunione con Dio.
Il Re del Mondo, detto anche Manu, non sarebbe soltanto un capo religioso, ma reggerebbe anche i destini del pianeta. Una figura enigmatica che ha attirato addirittura l’attenzione del noto cantautore Franco Battiato che ha riversato il suo interesse nei confronti delle tematiche già trattate da Guènon nella canzone intitolata proprio “Il re del mondo” contenuta nel disco “L'era del cinghiale bianco”; sibillini suonano i versi della sua canzone: “Un giorno in cielo, fuochi di Bengala... Ia Pace ritornò ma il Re del Mondo, ci tiene prigioniero il Cuore”.
Nei meandri oscuri della tradizione millenaria della storia umana spesso si nascondono simboli carichi di significati arcaici e indecifrabili. Alcuni di questi, spesso, sono stati tramandati nel corso dei secoli assumendo di volta in volta specifiche peculiarità collegate ai contesti di riferimento. In tal modo, nel corso del tempo, si è smarrita quella che era la loro valenza originaria; studiarne il simbolismo e ciò che rappresentano diventa, pertanto, poco agevole. È quello che è accaduto, per esempio, nel caso dell’enigmatica figura dell’uomo verde: una strana rappresentazione spesso presente all’interno delle cattedrali medioevali europee e che non trova un riscontro storico significativo né nei testi coevi né in studi organici successivi.
L’uomo verde
Le cattedrali medioevali rappresentano dei veri e propri libri di pietra dove spesso sono stati inseriti messaggi cifrati o velati dal valore fortemente simbolico utili agli iniziati o a coloro che avessero avuto le conoscenze per interpretarli. Questo paradigma di riferimento si può adottare anche nel caso delle immagini scolpite nella pietra raffiguranti l’uomo verde. Di solito appare come una semplice faccia maschile dalla quale germoglia un rigoglioso fogliame.
Nelle forme più semplici si tratta di visi dai quali spuntano ornamenti floreali; in particolare dagli occhi, dal naso, dalla bocca e dalle orecchie spuntano il più delle volte rami o foglie di vite; in alternativa queste figure hanno foglie e arbusti al posto della barba e dei capelli. Altre volte, invece, sono figure più astratte: predomina la vegetazione, mentre i lineamenti umani sono solo accennati e appena distinguibili.
“Io sono la vite, voi siete i tralci” riporta il versetto biblico di Matteo 21:5. Vite e tralci sono intimamente legati da un rapporto di dipendenza; infatti i tralci non hanno vita in sé: se non succhiano la linfa della vite sono morti. La vite necessita di molte cure e per portare più frutti è necessario che il vignaiuolo, cioè metaforicamente Dio, poti o pulisca i tralci; questo avviene attraverso la parola di Dio. Può essere, dunque, questo il motivo della presenza dei tralci di vite che nella maggior parte dei casi escono proprio dalla bocca.
Altre volte, invece, non sono visi umani, ma di demoni, di maschere o persino di animali, prevalentemente felini. Talvolta sono provvisti di denti e sembrano mordere i rami.
In questi casi l’associazione con il maligno sembrerebbe evidente; in altri, invece, appaiono semplicemente come motivi decorativi senza particolare significato, più che altro una dimostrazione del gusto per l’assurdo e del bizzarro tipico del medioevo.
Le origini
Nel passato remoto il possibile precursore di questa singolare rappresentazione artistica lo ritroviamo nella mitologia indù e in particolare nella figura di Yama, dio della morte e signore degli inferi; era raffigurato come un uomo verde vestito di rosso, con una corona di fiori tra i capelli, con in mano una mazza e seduto a cavallo di un bufalo.
Anche il mito egiziano di Osiride sembra essere strettamente collegato all’uomo verde. Esso rappresenta il dio della vegetazione e dell'agricoltura; anche in questo caso raffigurato come un uomo dalla pelle verde.
Benché molti siano inclini a cercare un'origine celtica della figura dell’uomo verde, si può affermare con certezza che si tratti di un simbolo pagano antecedente da interpretarsi come la raffigurazione dell'unione e del rispetto per la natura.
Osiride, Nettuno, il titano Oceano, Artemide e suo fratello Dioniso, Pan, Venere, le ninfe driadi e amadriadi e il mito della grande madre sembrerebbero avere una matrice comune di riferimento.
La rappresentazione dell’uomo verde si è sviluppata anche nella tradizione europea, in particolare a partire dal secondo secolo dopo Cristo.
La raffigurazione si è poi stratificata e sovrapposta alla storia di "Jack in the Green" e alla “Regina di Maggio”. "Jack in the Green", in particolare, rappresenta simbolicamente la morte della stagione fredda che permettere l'arrivo dello spirito dell'estate. In Gran Bretagna queste tradizioni popolari si possono ritrovare nella festa del primo maggio e nel “Garland Day” che si celebra il 29 maggio.
Un altro collegamento importante che potrebbe fare chiarezza sulle origini va rinvenuto anche nella figura del dio cornuto “Cernunno”, al punto che l'uomo verde può essere considerato una variante del medesimo. Già nelle più antiche testimonianze lasciate dai celti è chiaro che Cernunno governa la foresta e porta le corna ramificate di un cervo. La sua immagine è forte e potente e assicura la fertilità della natura. Come in moltissime altre immagini celtiche il potere risiede nella testa.
Un’altra rappresentazione medioevale può essere collegata alla figura dell'uomo selvaggio “Woodwose”; un uomo leggendario che sarebbe vissuto in solitudine nei boschi. L’elemento della vita nei boschi degli uomini primitivi è stato ripreso nei racconti dei fuorilegge a cavallo dell’anno Mille. Tra queste la storia certamente più famosa è quella di Robin Hood. Come si può notare questo personaggio è tipicamente vestito proprio di verde.
L’evoluzione del mito
La cultura medievale è piena di figure similari rispetto a quella di Robin Hood, come ad esempio quella presente nel poema trecentesco "Sir Gawain e il Cavaliere Verde"; in questo racconto sono narrate le vicende di un gigante che poi si rivela addirittura moralmente superiore ai cavalieri di Re Artù. Come si può notare alla figura dell’uomo verde sembrano collegati i concetti di forza, astuzia, rinnovamento e giustizia. Questo soprattutto quando il mito pagano è contestualizzato in occidente.
Il più antico uomo verde conosciuto in un contesto cristiano, invece, lo si ritrova su una pietra tombale a Poitiers, ma la figura rimane rara nell'iconografia cristiana fino al dodicesimo secolo.
Nei secoli successivi continua a essere usato come elemento di decorazione architettonica. Il fatto poi che sia praticamente scomparso con il declino dell’arte e dell’iconografia medievale resta il lato più curioso della storia.
Dopo il medioevo, sebbene fossero frequenti le allegorie legate ai boschi come luoghi di pace e tranquillità, inizia a svilupparsi la concezione che li individua come luoghi di tentazione: nel buio del bosco il diavolo cerca di deviare i fedeli dal sentiero della rettitudine. Nasce, così, la metafora della foresta come luogo iniziatico, celebrata da una letteratura dall’innegabile fascino come, ad esempio, i cicli bretoni e la saga dei Nibelunghi. La raffigurazioni dell’uomo verde risalenti a questo periodo risentono di questo mutamento concettuale.
Il volto dell’uomo verde, come detto, è tipicamente maschile; esiste, però, anche una controparte femminile, molto più rara, chiamata “Sheila” o “Sheela-na-gig”. Un esempio eccellente di "Green Woman" è raffigurato a Kilpeck in Inghilterra.
Il corrispettivo femminile certamente più famoso della figura dell’uomo verde, invece, è visibile nell’opera rinascimentale “La primavera” di Botticelli.
In particolare nella parte destra del quadro è raffigurata Flora, ossia la dea romana e italica della fioritura dei cereali e delle altre piante utili all'alimentazione, compresi vigneti e alberi da frutto. Col tempo fu individuata anche come dea della primavera. Dal 28 aprile al 3 maggio di ogni anno, momento critico della fioritura, si svolgevano i “Ludi Floreales”, feste dedicate alla dea, nelle quali abbondavano i divertimenti anche a sfondo erotico. Flora era anche la patrona proprio della fazione dei "verdi" (uirides o prasini) nelle corse del Circo.
I posti più importanti dove si trova
L'uomo verde non è mai raffigurato al centro dell’azione nell’ambientazione in cui è inserito. Egli è quasi sempre confinato e decentrato. Generalmente ha uno sguardo ammonitore e in molte raffigurazioni sembra scrutare attraverso il fogliame senza espressione, come se guardasse l’ignaro osservatore. Proprio per questo potrebbe rappresentare la consapevolezza della natura e del volere divino.
Tra le raffigurazioni più importanti dell’uomo verde ritroviamo quella posta alla base della colonna dell'apprendista nella cappella di Rosslyn. Sono raffigurati otto draghi dalle cui fauci emergono rami di vite che avvolgono a spirale tutta la colonna.
Nella cappella sono presenti oltre cento raffigurazioni floreali a tema. In questo contesto l’uomo verde è strettamente collegato alle gesta di Alessandro Magno narrate nel medioevo dallo storico greco Callistene di Olinto. Secondo questo autore Alessandro peregrinò nelle terre d'Egitto alla ricerca del regno dove potesse manifestarsi Dio finché arrivò su una montagna chiamata Mushas dove vide l'apparizione di un angelo; questo lo convinse ad abbandonare il suolo sacro confidandogli l’esistenza segreta della fonte dell’acqua della vita. Tornato all'accampamento Alessandro individuò tra i suoi uomini un saggio e cominciò con lui le ricerche, donando all'amico una pietra che si diceva provenisse dal paradiso. Dopo molte peripezie il saggio, stanco e senza speranza, si sedette e appoggiò la pietra a terra; allora questa emise un bagliore che consentì di scorgere una fontana; si tuffò nell'acqua e ne bevve abbondantemente; quando uscì non aveva più fame né alcuna esigenza terrena, poiché era diventato El-Kidr, il Sempreverde, ossia colui che sarà giovane per sempre.
Anche nel monastero di York ritroviamo una serie di figure strettamente collegate all’arcana figura dell’uomo verde; le raffigurazioni mostrano un uomo selvatico che protegge proprio un uomo verde da un diavolo. L'uomo verde, in questo caso, è un angelo terreno, il cui agire non viene dall'alto, ma dal mondo terreno.
I significati simbolici
I simbolismi associati, dunque, alla figura dell’uomo verde risultano molteplici.
Questa immagine molto probabilmente era un segno speciale di riconoscimento per i muratori scalpellini.
Una variante semantica della sua rappresentazione è assimilabile ai demoni della foresta e agli spiriti maligni e negativi dai quali è bene mettersi al riparo. Molte credenze medievali attribuivano ai demoni la capacità di assumere varie forme, tra cui quelle di alberi in grado di camminare.
Una leggenda cristiana racconta che il demonio si salvò dal diluvio universale assumendo l'aspetto inoffensivo proprio di una vite che Noè poi portò con sé sull'arca. Fu la stessa pianta che causò l'ubriachezza di Noè dopo il diluvio.
La collocazione dell’uomo verde nelle chiese, quindi, può essere vista come il tentativo di mettere in guardia l’uomo dal male e dalle tentazioni.
La moderna concezione dell'uomo verde lo associa anche agli antichi riti arborei e all’ide dell'albero della vita.
Anche alcune leggende a sfondo religioso hanno una contiguità con la rappresentazione dell’uomo verde; in particolare basti pensare alla storia che narra che il legno con cui fu realizzata la croce di Gesù proveniva da una pianta che originariamente era spuntata fuori dalla tomba di Adamo. Sembra, quindi, particolarmente interessante la relazione vita - natura - morte in maniera ambivalente.
L’uomo verde oggi
La diffusione della figura dell’uomo verde ha vissuto una nuova stagione dagli anni '90; infatti è stata ampiamente impiegata, per esempio, nel restauro ornamentale del castello di Windsor.
Il retaggio di questa strana figura la ritroviamo in epoca moderna in vari contesti; basti pensare alla trasposizione più o meno velata in alcuni personaggi, come per esempio: Babbo Natale, Peter Pan e Khidr (figura mitica del'Islam, dio della vegetazione e rappresentazione della resurrezione).
A proposito per esempio di Babbo Natale è curioso notare che il vestito rosso sarebbe stato introdotto dalla Coca-Cola; originariamente, infatti, tale vestito era verde e sarebbe divenuto rosso solo dopo che, negli anni '30, l'azienda utilizzò proprio Babbo Natale per la sua pubblicità natalizia.
Anche il personaggio di Peter Pan sembra avere una derivazione diretta dall’uomo verde e non a caso oltre all’immancabile vestito verde, il riferimento questa volta è anche nel nome e nell’indicazione del mito di Pan con il relativo richiamo all’ambientazione del bosco.
Il dio Pan era la divinità caprina considerata lo spirito di tutte le creature naturali. Potente e selvaggio, è raffigurato con corna e gambe caprine dotate di zoccoli, col busto umano, il volto barbuto e una terribile espressione. Vagava per i boschi inseguito dalle ninfe, mentre suonava e danzava. Peter Pan, dunque, sarebbe una rappresentazione subliminale dell’uomo verde e implicitamente del dio Pan. In apparenza una figura innocua e benevola che nasconde, invece, ben altre valenze simboliche.
Lo stereotipo dell’uomo verde con molta probabilità è stato acquisito nell’immaginario collettivo anche per rappresentare le entità aliene, da sempre raffigurate proprio di colore verde.
Nell’ambito della letteratura fantastica e fantascientifica l’uomo verde, infine, lo ritroviamo in diverse opere; pensiamo, ad esempio, agli Ent ossia gli alberi viventi protettori dei boschi, creati da Tolkien.
La fantascienza, anche in epoca più recente, a quanto pare ha attinto a piene mani dal mito; basti ricordare, per esempio, la figura dell’incredibile Hulk.
Verde è anche il volto dell’eroe dei fumetti “The Mask”, trasposto poi anche in ambito cinematografico. Si tratta di una maschera magica che garantisce all'indossatore invulnerabilità fisica, forza superumana, velocità, agilità, intelligenza, potere di alterare la realtà in una varietà di modi distruttivi; insomma, ancora una volta, una rivisitazione in chiave moderna dell’uomo verde.
Intorno all’enigmatica figura dell’uomo verde da sempre resta un fitto mistero. Un mito che si perde a metà strada tra le credenze ancestrali dell’uomo sin dai suoi albori e una dimensione più intima e simbolica; una foresta oscura dove emerge la voce tumultuosa del sub-inconscio che cerca di mettere in comunicazione l’uomo con la natura. Come dice giustamente Baudelaire: ”la natura è un tempio dove pilastri vivi mormorano a tratti indistinte parole; l'uomo passa, tra foreste di simboli che l'osservano con sguardi familiari”.
“Pio IX è un metro cubo di letame…acerrimo nemico dell'Italia e dell' unità. La più nociva di tutte le creature, perché egli, più di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli...Se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e
preti, mi arruolerei nelle sue file".
Queste sono parole di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi. Forse un eroe, ma non certamente un diplomatico. Quando si parla del personaggio italiano più celebre del risorgimento la prima cosa alla quale si pensa è proprio questa: il profumo di eroismo che contraddistingue le sue gesta tanto in Europa quanto nell’America Latina. Non esiste città italiana che non gli abbia dedicato una piazza, una strada o un monumento. Un protagonista assoluto della storia nazionale.
Il Garibaldi dei libri di storia
Nasceva a Nizza il 4 luglio 1807. I genitori avrebbero voluto avviarlo alla carriera di avvocato, medico o sacerdote, ma il giovane Giuseppe non amava gli studi, prediligendo gli esercizi fisici e la vita di mare. Dopo numerosi viaggi marittimi, a partire dal 1834 pur di partecipare a un’insurrezione popolare in Piemonte fu dichiarato prima latitante e poi condannato alla pena di morte ignominiosa in contumacia in quanto nemico della patria e dello stato; iniziava così un’avventurosa fuga, durante la quale cambiò la sua identità in Giuseppe Pane. Per sfuggire alle misure restrittive si trasferì in America Latina dove si rese protagonista di numerose imprese militari. Fu proprio durante il soggiorno d’oltreoceano che conobbe Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, una ragazza diciottenne che diventerà poi nota con il vezzeggiativo di "Anita". L’eroina garibaldina fu solo una, forse la più famosa, delle numerose donne che lo accompagnarono nella sua vita.
Nel 1848 tornò in Italia per partecipare alla prima guerra d’indipendenza. Dopo l’esperienza fallimentare della Repubblica Romana, viaggiò in giro per il mondo: Caraibi, Perù, America, Cina e Australia. Al suo rientro in Italia organizzò la spedizione dei Mille. Famoso l’incontro con Vittorio Emanuele II il 26 ottobre 1860, lungo la strada che portava a Teano, quando pronunciò la famosa frase “Obbedisco!”. Morì il 2 giugno 1882 nell’isola di Caprera all'età di quasi 75 anni per una paralisi della faringe. Fin qui il Garibaldi conosciuto e storico. É stato solo questo?
Il Garibaldi poco noto
Ci sono aspetti dell’eroe nizzardo che spesso passano sottotraccia e sono stati certamente poco approfonditi. Aspetti questi che potrebbero essere importanti in funzione di una riscrittura della nostra storia risorgimentale.
Giuseppe Mazzini lo definì “una vera canna al vento” e lo storico inglese Denis Mack Smith lo valutò “rozzo e incolto”.
Fra i 28 e 40 anni visse come un corsaro e imitò i grandi pirati del passato assaltando navi e saccheggiando bastimenti. Nel maggio del 1837, con i soldi della carboneria, mise in mare una
barca di venti tonnellate per predare le navi brasiliane; per questo fu dichiaro pirata e
corsaro sul fiume Rio Grande.
In Uruguay preferì combattere dalla parte degli inglesi per garantirne il monopolio commerciale sul Rio della Plata e contrastare così l'egemonia spagnola, nazione considerata troppo cattolica.
Nel 1852 al suo ritorno dal Perù fu artefice di un vero e proprio traffico di schiavi, in barba ai suoi ideali di libertà e fratellanza.
Una curiosità della sua vita privata spalanca le porte su alcuni aspetti molto controversi. Inserì nel proprio testamento alcuni passaggi tesi a sventare eventuali tentativi forzosi di conversione alla religione cattolica negli ultimi attimi di vita: ”Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo, e della confusione che sovente vi succede, s'inoltra, e mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga coll'impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze passate, ai doveri di cattolico: in conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare, in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d'un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in particolare. E che solo in stato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”.
Da questo passaggio viene fuori il Garibaldi, massone e anticlericale convinto, deista ma comunque non ateo. Una figura complessa, dunque, con luci e ombre.
L’altro Garibaldi
L’impresa garibaldina certamente più importante è stata la spedizione dei Mille, determinante per il processo dell’Unità d’Italia. Un’operazione epica ed eroica: soli mille uomini che salparono all’improvviso da nord conquistando in maniera trionfale tutta l’Italia meridionale; un esercito improvvisato che miracolosamente batté a più riprese un esercito molto più numeroso e attrezzato. Questo nei libri di storia. Andò veramente così? Fonti storiche certe evidenziano che i fatti si svolsero diversamente.
La spedizione dei Mille fu finanziata dalla massoneria inglese con una somma spaventosa di piastre turche, equivalenti a una somma ingente se paragonata alla moneta attuale. Si parla di circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra. Con tale montagna di denaro poté corrompere generali, alti funzionari e ministri borbonici, tra i quali non pochi erano massoni. La spedizione non fu per niente improvvisa e spontanea ma ben architettata, studiata a tavolino nei minimi dettagli e pianificata dalle massonerie internazionali. A Londra, per esempio, si costituì il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile a ingaggiare i mercenari che formarono la “Legione Britannica”, un gruppo scelto di uomini feroci che aiutarono il generale italiano in modo determinante.
L’approdo avvenne proprio dirimpetto al consolato inglese e in prossimità delle fabbriche inglesi di vini, con le spalle coperte dai piroscafi britannici.
Tra i Mille e tra i loro sostenitori più o meno ufficiali, ci furono molti massoni: a iniziare da Nino Bixio passando per Francesco Crispi fino ad arrivare allo stesso Cavour. Un fatto questo che ci riporta alla militanza di Garibaldi nella massoneria internazionale.
Garibaldi nutrì interesse per le società clandestine sin da tenera età. Venne affiliato con il nome di “Giovanni Borel” alla Giovane Italia nel 1832 all’età di 25 anni in una locanda di Taganrog sul Mar d’Azov; il suo padrino fu Giambattista Cuneo detto “il Credente”. L’anno successivo a Marsiglia incontrò anche Giuseppe Mazzini.
Nel 1844 a Montevideo iniziò la sua vera carriera di massone che culminò col 33° grado ricevuto a Torino nel 1862 e con la suprema carica di “Gran Hierofante del Rito Egiziano del Menphis-Misraim” nel 1881. Nel 1850 a New York e nel 1854 a Londra frequentò i lavori dell’Arte Reale. Il Grande Oriente di Palermo gli conferì tutti i gradi dal 4° al 33° sotto l’egida di Francesco Crispi.
In seguito venne affiliato anche nella loggia “Les Amis de la Patrie” nella capitale uruguayana e all’obbedienza del Grande Oriente di Francia. La sua affiliazione comparve successivamente anche nella “Loggia Tomp Kins” a Stapleton nello Stato di New York.
Dopo la nomina a “Sovrano Gran Commendatore del Gran Consiglio”, conferita nel 1863, l'assemblea dei liberi muratori italiani, riunitasi a Firenze nel maggio del 1864, lo elesse al primo scrutinio con quarantacinque voti (fave) su cinquanta, gran maestro dei liberi muratori comprendenti i due riti, quello scozzese e italiano. L’obiettivo principale in questa fase era di assegnare alla massoneria la regia dell’imminente breccia di Porta Pia.
Nel 1864 Garibaldi s’impegnò in prima persona per la creazione di logge femminili (irregolari secondo la tradizione massonica conservatrice) e nel 1867 cominciò a conferire diplomi onorari di maestro alle mogli di massoni.
Nell’ottica di sancire una ricomposizione nell’ambito della frazionata galassia delle obbedienze massoniche, nel giugno 1867, pur conservando la carica di “Gran Maestro” del consiglio scozzesista palermitano, accettò la nomina anche a “Gran Maestro Onorario” del Grande Oriente d’Italia che gli fu conferita dalla costituente massonica di Napoli.
Dal suo esilio, nel luglio del 1868, inviò al Supremo Consiglio della Massoneria una missiva per comunicare la sua rinuncia a qualunque titolo o grado a lui attribuito.
Nella sua lunga militanza massonica gli furono attribuiti anche i titoli di “Gran Maestro dell’Umanità” e di “Primo Massone del Mondo”. Giosuè Carducci nell’orazione funebre tenuta due giorni dopo la sua morte lo definì “Il Cavaliere di Umanità”.
Garibaldi, inoltre, s’interessò anche di spiritismo e occultismo. Credeva nella reincarnazione e nella cremazione dopo la morte.
Il suo nome fu il più diffuso fra quelli dati alle logge italiane ed estere.
Il generale italiano per antonomasia e il mondo massonico ebbero, dunque, un legame a doppio senso: da un lato Garibaldi sfruttò gli ideali massonici per i suoi fini politici e dall’altro le varie consorterie a loro volta lo utilizzò, sia prima sia dopo la sua morte, come straordinario testimonial e come veicolo di propaganda dei propri ideali.
I simboli massonici
Quando si parla di Garibaldi la prima immagine che ci sovviene è la sua casacca rossa, adottata anche nella spedizione dei Mille. Quel particolare tessuto fu comprato sotto prezzo in America Latina da uno stock svenduto da alcuni macellai che lo utilizzavano in funzione del fatto che proprio il rosso copriva lo sporco del sangue degli animali macellati.
Cosa rappresenta il colore rosso? Il rosso è il colore del sangue, dei muscoli e del cuore, ossia degli elementi indispensabili alla vita. Non a caso gli antichi romani veneravano il dio Marte, re della guerra e il colore rosso rappresentava proprio il sangue sparso durante le battaglie. Indica, inoltre, la passione, il valore dell'aggressività, della voglia di fare, di vincere e primeggiare. Il rosso è anche, guarda caso, il colore emblematico del grado iniziatico massonico dell’Arco Reale.
La conferma definitiva dell’imprimatur della massoneria viene poi da due monumenti dedicati a Garibaldi. Il primo è la stele commemorativa dell'impresa dei Mille sullo scoglio da cui partì la spedizione; in cima c’è in bella mostra una stella a cinque punte, la stella fiammeggiante ossia il pentalfa che nel dizionario dei simboli massonici ha un significato ben preciso: l’uomo e la sua natura divinizzante.
Ancora in maniera più esplicita ritroviamo la squadra e il compasso nella parte inferiore del monumento equestre romano dedicato all’eroe dei due mondi.
Due mondi: uno materiale e prosaico e l’altro più espressamente esoterico e che lo stesso Garibaldi non nascondeva neanche più di tanto per esempio quando affermava: “Per pessimo che sia il governo italiano, ove non si presenti l'opportunità di facilmente rovesciarlo, credo meglio attenersi al gran concetto di Dante: Fare l'Italia anche col diavolo”.