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Riti magici in Lucania - Dicembre 2020 - Giuseppe Balena

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Riti magici in Lucania - Dicembre 2020

«La magia offre il quadro mitico di forze magiche, di fascinazioni e possessioni, di fatture e di esorcismi e istituzionalizza la figura di operatori magici specializzati. In quanto operazione di riassorbimento del negativo nell’ordine metastorico, la magia è più propriamente rito, potenza del gesto e della parola…». Così si esprimeva l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino noto, tra le altre cose, per aver organizzato nel 1952 una vera e propria “spedizione” in Lucania, esattamente come se si trattasse di una terra sperduta con l’intento di raccogliere materiale sulla cultura tradizionale del mondo popolare di questa regione. In particolare il suo obiettivo era ricercare e studiare i riti magici in Lucania.

La Lucania: una terra magica…

La Lucania è una regione particolare: non solo perché ha un doppio nome, infatti è nota ai più come Basilicata, ma anche per la sua conformazione geografica incastonata tra il Mar Tirreno e lo Ionio al centro del sud Italia tra le regioni Campania, Puglia e Calabria.

Il toponimo Lucania deriverebbe forse dall’eroe eponimo Lucus, ma probabilmente potrebbe riferirsi a lýkos (λύκος) che significa lupo o al latino lucus che significa bosco sacro. Più antica invece è la tradizione che rimanda alla radice indoeuropea” leuk- “(ereditata sia dal corrispettivo greco che significa bianco e dal termine latino che significa luce). Già queste considerazioni etimologiche rimandano a una connotazione e a una dimensione magica e mitologica.

Basilicata, invece, è un termine più recente: lo si farebbe risalire all’ultimo periodo della dominazione bizantina in Italia tra XI e XII secolo d. C. e deriverebbe infatti da basilikós (βασιλικός) con il significato di reale o imperiale, a sua volta proveniente dal sostantivo basileús (βασιλεύς). Il basilikós era infatti il funzionario del re che governava su una parte dell’antica Lucania rimasta ancora sotto l’influenza bizantina.

La magia di questa terra però non si riscontra solo nella mitologia delle origini ma è anche nei luoghi. Basti pensare, per esempio tra i tanti, a un posto esotico ma fantastico come la Rocca del Cappello ad Albano di Lucania: si trova di fronte alle Dolomiti lucane e domina il fiume Basento. È un monolito alto più di dieci metri sulla cui sommità è poggiato un masso enorme dalla forma di cappello dal quale prende il nome. Sullo stesso monolito è stata ricavata una panchina chiamata “Seggia del Diavolo”. Si ipotizza che qui si svolgessero antichi culti in onore di Iside, dea egizia portatrice di compassione e speranza. Lungo il sentiero che porta alla roccia vi sono cinque coppie di vasche, i cosiddetti “Palmenti”. Queste vasche servivano a favorire la decantazione dell'acqua lustrale come quelle presenti proprio presso i santuari egizi; molto probabilmente in loco si svolgevano riti in onore delle divinità astrali e ci si bagnava con la cosiddetta acqua di stelle, ossia che fosse stata tutta la notte sotto le stelle durante il novilunio dei Pesci, l'unico in cui la luna è totalmente nascosta dal sole. Si trattava pertanto di un bagno purificatore e di buon auspicio per l'inizio di un nuovo anno. Lo stretto legame della Lucania con i riti magici è dunque molto antico.

I riti magici

Un rito è una cerimonia costituita da un atto o insieme di atti che vengono eseguiti secondo norme codificate. I riti generalmente sono strettamente connessi con la religione oppure con una dimensione mitologica o più in generale con la sfera del sacro.

Il rapporto della Lucania con la magia, intesa in senso ampio, è arcaico e profondo tanto da creare e codificare veri e propri rituali stratificati nel tempo ed entrati pienamente nella tradizione popolare.

Uno dei riti magici più importanti e conosciuti è la cosiddetta fascinazione o affascino. Ernesto de Martino la definisce una: «condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta». La fascinazione, in pratica, è il termine di uso locale per definire quella forza maligna che in genere viene definita “malocchio”. Il termine ha una indubbia derivazione latina cioè da “fascinum” che indicava appunto un maleficio o un mormorio incantatorio. Questa energia negativa ha un mezzo fisico attraverso cui si proietta sulla vittima ossia gli occhi, mentre la passione motrice è senza ombra di dubbio quasi sempre l’invidia. L’affascino si manifesta generalmente con il mal di testa.

Nella tradizione lucana l’affascino può essere di tre tipi: contro le persone, contro gli animali oppure contro le abitazioni. Le persone prese di mira sono soprattutto i bambini e gli sposi. Secondo tradizione il bambino corre il pericolo di essere guardato con invidia malefica quando sta nella propria culla e per tale motivo vengono posti in essa vari amuleti.

Un oggetto magico molto particolare e usato in questo ambito è il cosiddetto abitino ossia un sacchettino di stoffa di solito a forma quadrata o rettangolare, distinto in tre diversi elementi: il primo ha dentro il velo comunemente chiamato camicia; il secondo riporta cucito su un lato l’immagine della Madonna del Carmine; il terzo li contiene entrambi. Nell’abitino si mettevano acini di sale come buon auspicio e prosperità, parti di animali, un chiodo di ferro (il ferro era considerato il nemico del diavolo), aghi a forma di croce utili a cucire tra loro metaforicamente gli spiriti aggressivi o l’immaginetta di un santo. L’abitino non è mai stato proibito dalla chiesa a conferma della tolleranza nei confronti del sincretismo tra religione e magia presente nella società contadina lucana.

La masciara

Per risolvere i problemi di affascino si ricorreva alle “cure” di una figura carismatica e spesso avvolta nel mistero, a metà strada tra la pratica magica e quella terapeutica. Si trattava della cosiddetta masciara ossia generalmente una donna anziana depositaria del segreto di formule a carattere sacro.

Il termine masciara rimanda alla megera della mitologia greca, una delle tre Erinni o Furie, sorella di Aletto e Tisifone. Il nome deriva dal greco Μεγαιρα che indicava una persona invidiosa. La megera, inoltre, poteva indurre a commettere delitti, ma anche a praticare l’infedeltà matrimoniale. Era una figura rispettata e temuta in quanto le venivano attribuite poteri sovrannaturali. A volte vivevano ai margini della società. La si riteneva anche una persona senza anima poiché l’aveva venduta al diavolo in cambio proprio dei poteri magici capaci non soltanto di guarire specifiche malattie, ma di procurare anche dolori, determinare il crollo di una casa, distruggere un raccolto e in casi estremi causare la morte di una persona. Le sue azioni venivano di solito compiute su commissione di persone terze desiderose del male altrui.

Molto interessante erano le modalità operative; tra queste, per esempio, vi era un rito particolare: spegnere in una bacinella d’acqua salata tre tizzoni ardenti presi dal camino. Si tracciava per tre volte, con la mano sinistra, un segno di croce e ogni volta si recitava un Padre Nostro, un Ave Maria e un Gloria.

Un altro rituale riguardava una sorta di autocura che si usava in casi particolari: si versava una goccia di olio nella bacinella e si osservava se l’olio si spandeva; se ciò fosse accaduto sarebbe stato confermato l’affascino e l’acqua andava buttata a un crocevia di modo che chi passasse prendeva su di sé la forza malevola.

Un’altra pratica magica e curativa prevedeva che l’operatrice segnasse sulla testa dell’affascinato (o addirittura su di un suo oggetto se si trattava di un’operazione a distanza) per tre volte il segno della croce mentre si recitava un Padre Nostro, un Ave Maria e un Gloria; se l’affascino era presente, la guaritrice cominciava a sbadigliare come se patisse su di sé la forza malevola. Con questo metodo si capiva non solo se l’affascino era presente, ma anche chi l’avesse fatto. Se, infatti, si sbadigliava durante il Padre Nostro era stato un maschio, se si sbadigliava durante la preghiera dell’Ave Maria allora si tratta di una donna, mentre se succedeva durante la recitazione del Gloria l’artefice era un religioso.

La masciara preparava anche pozioni magiche che generalmente erano un infuso di oppio o suoi derivati, conosciuto come "papagna". Si preparava mettendo a macerare a caldo i pistilli di papavero variopinto che cresceva spontaneo nei campi coltivati specie a grano. La papagna era usata per i neonati quando senza motivo piangevano o tardavano ad addormentarsi. Si provvedeva anche a preparare le pozioni con altri vegetali tipo la mandragora il cui liquido in alcuni casi poteva provocare uno spaventoso delirio. Lo stesso effetto produceva lo strammonio detto "erba del diavolo"; questa, oltre al delirio, poteva produrre allucinazioni e temporanee alterazioni psichiche e somatiche.

Per calmare l'infermo si usava invece un preparato con l'aconito; questo produceva un profondo letargo tanto, in alcuni casi, da indurre a pensare che si trattasse di morte apparente.

La fattura d’amore

Ovviamente un altro campo di applicazione molto importante era la sfera affettiva e sentimentale. La fattura e quella d’amore nello specifico era un rituale magico non propriamente di origini autoctona ma comunque in Lucania assumeva una valenza particolare. Si trattava di un rituale compiuto per creare o sciogliere un vincolo amoroso.

Per compiere l’atto magico in tal caso la masciara aveva bisogno di un oggetto appartenente alla persona oggetto della fattura. Poteva essere una ciocca dei capelli, un indumento (un vecchio pantalone, un lembo di camicia, di mutanda, una calza, magari reperibili con accortezza durante il loro lavaggio presso il lavatoio pubblico) o un suo oggetto personale (scarpa, collanina, fazzoletto). Ricevuto l’oggetto richiesto si procedeva a compiere l’atto magico alla presenza dei richiedenti con specifiche formule segrete. Si verificava che l’affatturato col passare dei giorni si mostrasse svogliato e disattento in particolare nei confronti della persona amata o al contrario improvvisamente fortemente interessato.

Di solito erano le donne non corrisposte a ricorrere all’intervento magico. La forma più complessa del rito consisteva nell’utilizzo di una pupattola alla quale si attribuiva il sesso della persona cui indirizzare il rituale. La masciara incorporava nella pupattola il materiale organico appartenente alla persona da “affatturare”, quindi, recitando formule segrete conficcava con forza tre spilli oppure tre chiodi in tre punti diversi: testa, cuore, sesso. Così preparata la si doveva deporre, nascondendola, presso l’abitazione del destinatario oppure, se possibile, la si seppelliva oppure la si inchiodava su un muro confinante la sua casa. Insomma, la distanza tra il soggetto e l’oggetto doveva essere minima affinché l’atto magico sortisse il suo effetto.

I filtri d'amore destinati all'uomo erano composti da sangue catameniale (alcune gocce), secrezione delle ghiandole del Bartolino, alcuni peli delle ascelle o del pube e un po' di sangue (tre gocce) prelevato da un dito della mano sinistra o dal braccio sinistro. Questa pozione doveva essere ingerita dall'uomo che si voleva fare innamorare mescolata nel cibo. Per preparare il filtro destinato a far innamorare la donna bisognava invece sostituire alcune gocce di sperma al posto del sangue catameniale e omettere la secrezione delle ghiandole del Bartolino.

Questi rituali che oggi potrebbero sembrare anacronistici in realtà erano fortemente sentiti nell’ambito della società contadina della Lucania. Come annotava De Martino: «Questa è la Lucania di oggi: un mondo in movimento, nel quale ancora persistono tratti antichissimi o addirittura primitivi e al tempo stesso un mondo nel quale fermenta negli animi un potente impulso verso la civiltà, malgrado le delusioni e le asprezze della vita di ogni giorno».