Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
«Sorge nell'alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte […] dentro vi sono tutte l'arti, e l'inventori loro, e li diversi modi, come s'usano in diverse regioni del mondo».
I versi sibillini del testo appena citato sono tratti dall’opera filosofica del 1602 “La Città del Sole” di Tommaso Campanella che, richiamandosi alla Repubblica di Platone, presentava in forma dialogica il confronto di due personaggi: l'Ospitalario, un cavaliere dell'ordine di Malta e il Genovese ossia il nocchiero di Cristoforo Colombo. Quest’ultimo raccontava di aver scoperto una città governata con leggi e costumi perfetti individuata nell'isola di Taprobana durante uno dei suoi viaggi in giro per il mondo.
Nella città ideale prefigurata dal filosofo religioso calabrese il potere spirituale e temporale erano detenuti da un Principe Sacerdote, anche chiamato con gli appellativi di Sole o Metafisico.
La città, a forma circolare, era situata su un colle ed era costituita da sette mura che prendevano il nome dai sette pianeti. Gli abitanti non conoscevano egoismi, gli orrori della guerra e della fame e le violenze. La città era organizzata in modo totalmente razionale ed era controllata da un gruppo di persone chiamati "offiziali" che vigilavano continuamente in modo che nessuno potesse compiere azioni non giuste nei confronti degli altri cittadini.
Come si può notare, al netto dei riferimenti esoterici ben evidenti rispetto ai nomi dei due protagonisti (uno collegato a un ordine cavalleresco e l’altro al titolo di riconoscimento riservato al Gran Maestro del Priorato di Sion) e al richiamo della tradizione mistica egizia della divinità del Sole incarnata dall’autorità sacerdotale, è chiara la volontà di Campanella di voler descrivere una società utopica e perfetta, quasi irrealizzabile nella realtà. Eppure il sogno antico di Tommaso Campanella a quanto pare dopo molti secoli forse è diventato realtà.
Auroville: la città perfetta
La moderna Città del Sole dopo oltre quattrocento anni dalla sua prefigurazione letteraria si è materializzata. Si trova nell’India meridionale, in quello che fino a qualche decennio fa era solo un deserto di sabbia rossa. Una città internazionale organizzata sin dalla sua fondazione senza denaro, senza forme di governo e di religione come siamo abituati a concepirli e senza l’urbanizzazione selvaggia tipica delle metropoli occidentali. Un nuovo concetto di città costruita su misura per tutte le persone, i movimenti culturali e le organizzazioni che vogliono contribuire significativamente al progresso dell’umanità.
Questa città si chiama Auroville ed è stata fondata il 28 febbraio 1968 da un gruppo di giovani hippy sotto le direttive di Mirra “La Madre” Alfassa, una misteriosa donna di origini francesi e devota collaboratrice spirituale del filosofo indipendentista indiano Sri Aurobindo. I suoi valori richiamavano lo spiritualismo induista, il comunitarismo gandhiano, il marxismo e l’anarchismo.
La città è stata disegnata dall'architetto Roger Anger e all’atto della fondazione i rappresentanti di 124 nazioni si sono riuniti nell’altopiano e ognuno di loro ha portato con sé una manciata di terra dalla propria nazione per depositarla in un’urna di marmo a forma di fiore di loto.
La città è divisa in quattro zone con specifiche funzioni: industriale, internazionale, culturale e residenziale. L’agglomerato ospita circa 2.500 residenti permanenti di 45 nazionalità e circa 5.000 visitatori, di cui la maggior parte turisti o volontari stranieri alla ricerca di un’esperienza di vita differente. Per divenire residenti permanenti è richiesto ai nuovi arrivati di contribuire attivamente alla comunità per almeno due anni, senza mai allontanarsi da essa. Un comitato ristretto analizza poi le richieste di residenza (proprio come avveniva con gli “offiziali” di Campanella) e a ogni nuovo cittadino viene richiesto come primo gesto quello di piantare un albero. Dalla sua fondazione ad oggi Auroville ha dato vita così a una foresta in mezzo al deserto.
La cosiddetta “città dell’aurora” ha l’ambizione di diventare un punto di riferimento per lo sviluppo ecosostenibile e l’innovazione sociale; la città, infatti, è autosufficiente energeticamente grazie prevalentemente allo sfruttamento dell’energia solare. Si fonda sull’agricoltura biologica, sul riciclaggio della quasi totalità dei materiali e sulla costruzione con tecniche di bioedilizia. Il sistema economico-sociale è basato sulla proprietà collettiva, senza avere tuttavia un sistema normativo e senza la presenza delle forze dell’ordine. La cultura artistica spontanea, la quiete e la meditazione sono i principi cardini della vita quotidiana.
L’intera comunità è finanziata dall’Unesco, dalla Comunità Europea, dal governo indiano e da donazioni private che insieme contribuiscono al bilancio complessivo annuale. L’allocazione dei fondi è decisa collettivamente e i profitti delle unità produttive vengono spartiti equamente tra le casse comunali e i progetti specifici proposti dalla cittadinanza a supporto delle imprese locali e per il bene comune. Essendo, pertanto, i propri profitti spartiti col resto della comunità, ogni cittadino non percepisce un salario bensì una specie di reddito di cittadinanza. Ad Auroville, infatti, la proprietà è collettiva ossia ciò che viene realizzato dai suoi abitanti non può essere venduto e qualsiasi attività è basata sul volontariato. Ogni cittadino è tenuto a lavorare almeno cinque ore al giorno per sostenere la comunità, ma non esiste una precisa divisione delle mansioni. Questo aspetto richiama molto da vicino la struttura sociale dell'isola di Taprobana descritta dal Campanella dove gli abitanti lavoravano per sole quattro ore al giorno. Il tempo restante veniva impiegato in attività ricreative e ludiche che però dovevano sempre avere un fine culturale.
Ad Auroville esiste una zona dedicata alla meditazione e alla ricerca spirituale, ma non c’è una religione ufficiale: ogni cittadino è libero di professare il proprio credo.
Questa è l’immagine di facciata della città perfetta, ma a un’analisi più attenta si possono evidenziare elementi riconducibili a una matrice esoterica che porta alla luce vari spunti interessanti di riflessione.
Gli aspetti esoterici
In prima battuta bisogna partire proprio dal nome stesso della città. Auroville ha certamente una doppia valenza: da un lato è possibile evidenziare il riferimento alla “città dell’aurora” e dall’altro si può notare il suffisso “auro” che richiama l’elemento dell’oro. I due significati sono concettualmente collegabili e sovrapponibili; infatti l'aurora è l'apparizione della luce, dorata e talvolta rosea o purpurea e anche ramata, che appare nel cielo poco prima del sorgere proprio del sole. Ecco che quindi torna in maniera piena il riferimento al componimento del Campanella e si conferma il fatto che la città è stata ideata pensando proprio alla Città del Sole o comunque al sole come elemento naturale. Ovviamente questo riferimento alla stella solare ha anche una valenza simbolica ma soprattutto divina perché richiama la divinità Ra egiziana. Allo stesso modo il riferimento aureo, invece, va letto nell’ambito della scienza alchemica come perfezionamento ultimo del processo e nella trasmutazione del vile metallo in oro. Ovviamente l’oro è un simbolo mediato indicativo, partendo già dal suo colore giallo, proprio del sole. Entrambi questi aspetti del nome della città sono riconducibili molto probabilmente al background culturale della fondatrice della città ben intriso di conoscenze esoteriche della stessa.
Mirra “La Madre” Alfassa, infatti, è stata senza dubbio un personaggio particolare, già a partire dal nome che come è evidente fa riferimento chiaramente alla dea madre primordiale e creatrice dal cui grembo mitologicamente si è generato mondo e simbolicamente in questo caso una nuova idea di città e di comunità. Non a caso, infatti, la data della fondazione della città cade in un periodo, il ’68, che avrebbe dovuto rappresentare il punto di partenza di una rinascita generazionale e culturale oltre che di un rinnovamento ideologico e spirituale. Allo stesso modo proprio all’atto della fondazione si assiste a una cerimonia dall’alto valore simbolico ed esoterico: i partecipanti di varie nazioni hanno portato un pugno della loro terra; questo oltre a richiamare il valore divinatorio e primordiale ancora della Madre Terra, ha anche un collegamento biblico non di poco conto. Richiama infatti l’episodio della creazione di Adamo e quindi per estensione la nascita di una nuova entità grazie all’intervento divino.
A un’analisi più approfondita la paventata non-religiosità di Auroville, in realtà, sembrerebbe essere solo di facciata e non sostanziale e potrebbe richiamare per analogia il concetto “religioso” che vige nel tempio massonico. Senza considerare l’adorazione quasi divinatoria che aleggia sulla figura della fondatrice Mirra “La Madre” Alfassa.
Senza ombra di dubbio, inoltre, è possibile di fatto individuare nell’enclave il culto del sole. Infatti, il progetto originale della città è stato ideato dall’architetto francese Roger Anger che immaginava Auroville come una “galassia” con al centro un’enorme sfera dorata utilizzata per la meditazione e chiamata Matrimandir. La città, inoltre, vista dall’alto ha la forma di un occhio e richiamerebbe ovviamente allo stereotipo dell’occhio onniveggente divino con implicazioni esoteriche non di poco conto. All’interno del Matrimandir è presente una sala circolare in marmo bianco e rappresenta il principale luogo di meditazione frequentato dai residenti. Al centro è presente una sfera di cristallo dal diametro di settanta centimetri che raccoglie i raggi del sole riflessi da uno specchio sul tetto.
Questo richiama molto da vicino il tempio descritto nella Città del Sole che infatti era proprio di forma circolare ed era costituito da grandi colonne sopra le quali sorgeva una cupola al cui interno figurava la sfera celeste disegnata in maniera molto dettagliata addirittura con i nomi di ogni costellazione.
Gli abitanti di Auroville, inoltre, possono pranzare in uno spazio comune chiamato “Solar Kitchen” ossia una gigantesca mensa vegetariana dove si cucina solo ed esclusivamente grazie all’energia solare.
In sostanza, dunque, i collegamenti con la Città del Sole sono evidenti; diceva in un passo uno dei personaggi di Campanella: «Questa è una gente ch'arrivò là dall'Indie, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina di Mogori e d'altri predoni e tiranni; onde si risolsero di vivere alla filosofica in commune, si ben la communità delle donne non si usa tra le genti della provinzia loro; ma essi l'usano, ed è questo il modo. Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare cosa alcuna. Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l'amor proprio; ché per sublimar a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, si è impotente. Ma quando perdono l'amor proprio, resta il commune solo».
Niente di nuovo, dunque, sotto il sole splendente di Auroville.
«Così, quando un mago è versato nella filosofia naturale e nella matematica e conosce le scienze che ne derivano, l’aritmetica, la musica, la geometria, l’ottica, l’astronomia e quelle che si esercitano a mezzo di pesi, di misure, di proporzioni, di giunzioni, nonché la meccanica, che è la risultante di tutte queste discipline, può compiere cose meravigliose che stupiscono gli uomini più colti». Così si esprimeva Cornelio Agrippa, convinto che la matematica, con le sue applicazioni pratiche e teoriche, possa essere considerata l’arte magica per eccellenza. Forse è effettivamente così, sebbene sin da piccoli siamo stati abituati a pensare che la matematica sia essenzialmente solo un groviglio di fredde e distaccate regole e formule astratte avulse da applicazioni reali. In effetti, però, non è così: la matematica può avere risvolti e utilizzi concreti anche nella vita di tutti i giorni (basti pensare per esempio al funzionamento dei più moderni strumenti tecnologici), ma soprattutto può essere la base di riferimento per importanti interpretazioni simboliche e in particolare legati alla numerologia, spesso utili per decodificare alcune opere d’arte o monumenti come per esempio le Piramidi che sono state costruite secondo calcoli ben precisi. In altre parole la matematica può essere considerata uno strumento importante, basti pensare, per esempio, ai risvolti esoterici e mistico-simbolici legati al pensiero di Pitagora. Tenuto conto di questo quadro di riferimento vi è poi un’applicazione matematica che si perde nella notte dei tempi, ma che ha un fascino particolare. Il suo nome è il quadrato magico.
Le origini
I quadrati magici erano già noti in Cina nei primi secoli dopo Cristo e forse addirittura nel IV secolo a.C. I primi quadrati magici risalgono addirittura all’antica Cina, ai tempi della dinastia Shang, nel duemila a. C., quando secondo la leggenda un pescatore trovò lungo le rive del fiume Lo, un affluente del fiume Giallo, una tartaruga che portava incisi sul suo guscio strani segni geometrici. Il pescatore portò la tartaruga all’imperatore e i matematici al suo servizio studiando quei segni scoprirono un’imprevedibile struttura: un quadrato di numeri con somma costante 15 su ogni riga, colonna e diagonale. Si trattava di un quadrato magico 3x3 (ossia di ordine 3) definito “Lo Shu”.
Le proprietà più interessanti di questo primo quadrato magico sono collegate alla teoria dello Yin-Yang, secondo la quale ogni cosa deriva dall’armoniosa opposizione di due originali forze cosmiche. Yang è la forza maschile, sorgente di calore, di luce e di vita, sotto l’influenza del Sole; Yin è invece la forza femminile che si sviluppa al buio, al freddo e nell’immobilità, sotto l’influenza della Luna. Nel “Lo Shu” i numeri dispari rappresenterebbero l’elemento maschile, mentre quelli pari l’elemento femminile. Il numero cinque, inoltre, rappresenta la Terra mentre gli altri numeri i punti cardinali e le stagioni. Ad esempio: uno è il nord e l’inverno, il nove è il sud e l’estate, il tre rappresenta l’est e la primavera e il sette l’ovest e l’autunno. Attorno al numero cinque si alternano coppie di numeri che rappresentano i quattro elementi: l’acqua, uno e sei; il fuoco, due e sette; il legno tre e otto e il metallo, quattro e nove.
In occidente, invece, i quadrati magici apparvero intorno al XIII secolo. Se ne trova traccia in un manoscritto in lingua spagnola, ora conservato nella biblioteca Vaticana, attribuito a Alfonso X di Castiglia. Già in questo testo i quadrati sono messi in relazione con i pianeti. Ricompaiono poi a Firenze nel XIV secolo in un manoscritto di Paolo Dagomari, matematico, astronomo e astrologo che fu tra l'altro in stretto contatto con Jacopo Alighieri, uno dei figli di Dante.
Con l'avvento della stampa, i quadrati magici crebbero enormemente, soprattutto grazie all’opera di Cornelio Agrippa che li descrisse in gran dettaglio nel libro II della sua opera Filosofia Occulta, definendoli "tavole sacre dei pianeti e dotate di grandi virtù, poiché rappresentano la ragione divina, o forma dei numeri celesti".
La vera riscoperta dei quadrati magici si ebbe, però, con lo sviluppo in Italia del neoplatonismo rinascimentale e quindi di riflesso delle scienze esoteriche. Il quadrato magico, però, è prima di tutto un concetto matematico.
Gli aspetti matematici
Si tratta di una disposizione di numeri interi all’interno di una tabella quadrata in cui siano rispettate due condizioni: i valori siano tutti distinti tra loro e la somma dei numeri presenti in ogni riga, in ogni colonna e in entrambe le diagonali, dia sempre lo stesso risultato, denominato "costante di magia". In matematica, una tabella di questo tipo è detta matrice quadrata. In modo analogo il numero di righe (o di colonne) è detto "ordine" del quadrato magico. Se si moltiplica la costante magica per l'ordine, si ottiene la somma di tutti gli interi del quadrato. Dunque una vera e propria struttura magica basta sui numeri.
I quadrati magici di ordine tre sino al nove, descritti come strumenti per attirare le influenze dei pianeti, si ritrovano in numerosi manoscritti a partire dal XV secolo. Tra i più noti possiamo citare il Liber de Angelis, un testo di magia angelica. I quadrati con ordini compresi tra tre e nove sono invece collegati simbolicamente ai vari pianeti. Nel corso dei secoli sono stati utilizzati per costruire talismani: le loro incisioni su placche d'oro o d'argento venivano impiegate come rimedi, per esempio, contro la peste o il mal d'amore.
Nell’edizione del 1533 nel libro II della sua opera Filosofia Occulta di Cornelio Agrippa i quadrati magici sono associati alla magia celeste, cioè al potere delle stelle e dei pianeti. Di ogni quadrato magico Agrippa fornisce la descrizione in chiave planetaria, secondo il seguente schema:
Ordine 3: quadrato di Saturno
Ordine 4: quadrato di Giove
Ordine 5: quadrato di Marte
Ordine 6: quadrato del Sole
Ordine 7: quadrato di Venere
Ordine 8: quadrato di Mercurio
Ordine 9: quadrato della Luna.
Vi è poi una particolare forma evoluta del quadrato magico che è definito invece quadrato cabalistico di ordine sei, cioè con una matrice quadrata 6x6 che contiene i numeri da 1 a 36. In numerologia questo quadrato magico assume una valenza particolare poiché la somma di tutti i numeri utilizzati determina il famigerato numero 666.
È possibile definire i quadrati magici secondo il loro utilizzo e la loro funzione: ordinari, panmagici, satanici, diabolici e cabalistici. A partire dal XVI secolo la loro diffusione è arrivata anche in ambito artistico: la matematica così si fonde e si nasconde nell’arte, sconfinando nel simbolismo e nell’esoterismo.
Il quadrato magico di Dürer
In ambito artistico il quadrato magico lo ritroviamo in una strana opera tanto affascinante quanto enigmatica. Un quadrato magico di ordine quattro, quindi quadrato di Giove, infatti compare in una delle incisioni più famose dell’artista tedesco Albrecht Dürer, ossia la Melencolia I, realizzata nel 1514. Il quadrato magico è raffigurato sulla parete dietro il soggetto, in alto a destra. L’incisione è stata oggetto di diversi studi che in prima battuta hanno evidenziato il collegamento, in linea con la dottrina medioevale, degli stati d’animo con i quattro elementi naturali e con i pianeti, secondo lo schema: umore sanguigno – aria – Giove, umore collerico – fuoco – Marte, umore flemmatico – acqua – Luna, umore melanconico – terra – Saturno. In maniera enigmatica e simbolica l’artista pone, dunque, l’attenzione sul pianeta Giove, in virtù del fatto, come abbiamo detto, che il quadrato magico è di ordine quattro e pertanto collegato ad esso. Cosa vuole esprime, però, effettivamente sotto questo velo simbolico?
Il soggetto ritratto nell’opera regge un compasso, ha una borsa per contare il denaro ed è circondato da oggetti di forma geometrica, tra i quali uno strano poliedro che ha interessato generazioni di matematici. La figura alata è seduta con aria pensosa davanti a una costruzione in pietra circondata da strani oggetti, appartenenti al mondo dell'alchimia: una bilancia, un cane scheletrico, attrezzi da falegname, una clessidra, un putto, una campana, un coltello e una scala con sette pioli.
L'opera, simbolicamente, rappresenta in termini alchemici le difficoltà che si incontrano nel tentativo di tramutare il piombo (anime delle tenebre) in oro (anime che risplendono). Si tratta quindi di un vero e proprio compendio del pensiero dell'artista sull'arte e sull'animo umano attraverso la scienza alchemica.
In questa visione e seguendo queste chiavi interpretative è possibile forse capire meglio la presenza del quadrato magico.
In prima battuta è possibile notare che i due numeri nelle caselle centrali dell'ultima riga formano 1514, anno in cui venne eseguita l'incisione. Le due caselle poste alle estremità, invece, contengono i numeri quattro e uno che corrispondono alle lettere D e A dell’alfabeto, ossia proprio le iniziali di Albrecht Dürer.
Il quadrato magico contenuto nell'opera è molto complesso. Infatti non è in funzione solo del fatto che la somma dei numeri delle linee orizzontali, verticali e oblique riporta sempre come risultato 34 ma anche la somma dei numeri dei quattro settori quadrati in cui si può dividere lo schema e anche i quattro numeri al centro se sommati danno ancora proprio 34. La stessa cosa vale anche per i quattro numeri agli angoli. Inoltre se si prende un numero agli angoli e lo si somma con il numero a lui opposto si ottiene sempre 17 ossia la metà proprio di 34.
È importante notare che il numero 34 simboleggia il potere della realizzazione dell'uomo e rappresenta l'evoluzione risultante dall'organizzazione cosmica e dalla legge naturale, ossia il cosiddetto asse del mondo. Si tratta, dunque, di un numero magico per eccellenza e rappresenta la compresenza di vari elementi allusivo al processo di trasformazione oggetto dell’opus alchemico. Si tratta di un numero complesso: il principio del tre, il numero perfetto, si unisce al quattro, il numero della materia, creando la cifra del perfetto mutamento.
Il quadrato magico dell’incisione di Dürer, ma in generale tutta l’opera, è dunque un complesso sistema di conoscenze celate in pochi centimetri quadrati: la matematica al servizio di altre discipline come in un percorso iniziatico.
Diceva ancora Cornelio Agrippa: «Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera. Scrutate il libro, raccoglietevi in quella intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi; ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro, affinché possa essere compreso dalla vostra saggezza».